Hoyt.
È stata l'assenza del prete, a svegliarla. Anche durante il sogno, Brawne si rendeva conto del lieve respiro e dei gemiti quasi impercettibili del prete addormentato e sofferente. A un certo punto, nell'ultima mezz'ora, il prete se n'è andato. Forse solo qualche minuto prima; pur sognando Johnny, Brawne Lamia ha sentito un fruscio sopra il raspare della sabbia e il ruggire del vento.
Lamia si alza e si scherma gli occhi. C'è buio fitto, le stelle sono nascoste dalle nuvole e dalla tempesta di sabbia, ma un fulgore quasi elettrico riempie l'aria e si riflette su rocce e dune. L'aria è piena d'elettricità statica che le fa rizzare i capelli e li muove come la chioma di Medusa. Le cariche di statica le strisciano lungo le maniche e si librano sopra le tende come fuochi di Sant'Elmo. Mentre la vista si adatta all'oscurità, Lamia capisce che le dune mobili brillano di fuoco livido. Quaranta metri a est, la tomba detta Sfinge è una sagoma che pulsa e crepita nella notte. Onde di corrente si muovono lungo le appendici spalancate spesso chiamate ali.
Brawne Lamia non vede segno di padre Hoyt e si domanda se non sia il caso di chiamare aiuto. Capisce che la voce non supererebbe il ruggito del vento. Per un istante si domanda se il prete non sia semplicemente andato in un'altra tenda o alla rozza latrina venti metri a ovest, ma qualcosa le dice che non è così. Guarda la Sfinge e, per un attimo, crede di scorgere la sagoma d'un uomo, mantello nero che pende come una bandiera afflosciata, spalle ingobbite per resistere al vento, messa in risalto dal bagliore delle statiche.
Una mano le tocca la spalla.
Brawne si sottrae di scatto, si rannicchia in posizione di combattimento, pugno sinistro teso, destra irrigidita. Riconosce Kassad, in piedi accanto a lei. Il colonnello è alto una volta e mezzo Brawne, largo la metà: fulmini in miniatura giocano sul suo fisico magro, mentre lui si china a gridarle all'orecchio: — È andato da quella parte! — Quella sorta di spaventapasseri nero tende il braccio in direzione della Sfinge.
Lamia annuisce e risponde gridando, ma nel ruggito del vento quasi non riesce a udire la propria voce: — Svegliamo gli altri? — Solo in quel momento ricorda che Kassad montava la guardia. Ma non dorme mai, quell'uomo?
Fedmahn Kassad scuote la testa. Ha alzato i visori e ha modificato la struttura del casco che ora forma un cappuccio sulla schiena della tuta blindata da combattimento. Sembra pallidissimo, sotto il bagliore emesso dalla tuta. Indica la Sfinge. Nell'incavo del braccio sinistro regge il fucile multiuso della FORCE. Granate, custodia col binocolo e altri oggetti misteriosi pendono da ganci e cinghie disseminati sulla tuta blindata. Kassad indica di nuovo la Sfinge.
Lamia si protende verso di lui e grida: — L'ha preso lo Shrike?
Kassad scuote la testa.
— Riesci a vederlo? — Lamia indica il visore notturno e il binocolo.
— No — risponde Kassad. — La tempesta. Rovina le tracce termiche.
Brawne Lamia gira la schiena al vento, sente i granelli di sabbia colpirle la nuca come proiettili di una pistola a fléchettes. Interroga il comlog, ma l'apparecchio le risponde solo che Hoyt è vivo e si muove; non ci sono altre trasmissioni sulla banda comune. Lamia si sposta fino a trovarsi a fianco di Kassad: la loro schiena forma un muro contro la tempesta. — Lo seguiamo? — grida.
Kassad fa un cenno di diniego. — Non possiamo lasciare incustodito il campo. Ho disposto alcuni rivelatori, ma… — Indica la tempesta.
Brawne Lamia torna nella tenda, s'infila gli stivali, indossa il mantello per tutte le stagioni, impugna l'automatica paterna ed esce. Nella tasca del mantello ha un'arma più convenzionale, uno storditore Gier. — Allora vado io — dice.
Sulle prime pensa che il colonnello non abbia udito, ma poi scorge l'espressione degli occhi slavati e capisce che Kassad ha sentito. Il colonnello batte un colpetto sul comlog militare che porta al polso.
Lamia annuisce e si assicura che il proprio impianto comlog sia regolato sulla banda più ampia possibile. — Tornerò — dice e si avvia a risalire la duna. Le gambe dei calzoni brillano per le scariche statiche e la sabbia sembra viva per gli argentei impulsi di corrente che guizzano sulla superficie variegata.
Percorsi venti metri, Lamia non vede più l'accampamento. Dopo altri dieci metri, si trova davanti alla Sfinge. Non c'è segno di padre Hoyt. Nella tempesta le impronte di passi non durano dieci secondi.
L'ampio ingresso alla Stinge è aperto, come sempre da quando l'umanità ha scoperto l'esistenza delle Tombe. Ora appare come un rettangolo nero in una parete debolmente luminosa. La logica suggerisce che Hoyt sia entrato, se non altro per togliersi dalla tempesta; ma un'intuizione al di là della logica dice a Brawne Lamia che la meta del prete non è quella.
La donna oltrepassa la Sfinge, per qualche istante si tiene al riparo dell'edificio per togliersi dal viso la sabbia e respirare liberamente, poi riprende ad avanzare seguendo un sentiero di terra battuta appena visibile fra le dune. Più avanti, la Tomba di Giada risplende di un verde latteo nella notte: le morbide curve e gli spigoli sono unti di lucore sinistro.
Lamia aguzza lo sguardo e vede, per un fuggevole istante, qualcuno o qualcosa stagliarsi contro il bagliore. La figura svanisce subito: o è entrata, o è invisibile contro il semicerchio nero dell'ingresso.
Lamia china la testa e avanza, sotto la pressione del vento che pare spingerla di fretta verso qualcosa di grande importanza.
4
La riunione informativa militare proseguì, monotona, fin verso metà mattino. Sospetto che da parecchi secoli simili riunioni abbiano sempre le stesse caratteristiche: discorsi vivaci e monotoni come un ronzio di fondo, gusto stantio di troppo caffè, cappa di fumo, pile di bozze, vertigine corticale per sovrapposizione di dati. Ho l'impressione che fosse più semplice, quand'ero ragazzo: Wellington radunava i propri uomini (quelli che con accuratezza spassionata definì "i rifiuti della società"), non dava spiegazioni e li mandava a morire.
Riportai l'attenzione sul gruppo. Ci trovavamo in una sala spaziosa: pareti grigie alleggerite da rettangoli bianchi di luce, tappeto grigio, tavolo color bronzo, a ferro di cavallo, con diskey neri e qua e là una brocca d'acqua. Il Primo Funzionario Esecutivo Meina Gladstone sedeva all'apice della curva del tavolo e aveva ai lati i senatori di maggiore importanza e i ministri di gabinetto, e poi ufficiali militari e funzionari di livello inferiore. Alle spalle di tutti quelli seduti al tavolo c'era l'inevitabile grappolo d'aiutanti di campo (nel caso dei militari, come minimo del grado di colonnello) e dietro costoro, su poltrone dall'aria meno comoda, gli aiutanti degli aiutanti.
Io non avevo poltrona. Con un gruppo di altri invitati chiaramente inutili, sedevo su uno sgabello nell'angolo in fondo alla sala, a venti metri dal PFE e anche più lontano dall'ufficiale relatore, un giovane colonnello che impugnava una bacchetta e non aveva la minima esitazione nel tono di voce. Dietro il colonnello c'era la piastra grigia e oro di una lavagna di richiamo della memoria del computer; davanti a lui, l'onnisfera leggermente rialzata del tipo che si trova nelle piazzuole di proiezione. Di tanto in tanto la lavagna di richiamo si scuriva e si attivava; in altre occasioni, complesse olografie si formavano a mezz'aria. Miniature di questi diagrammi brillavano su ogni piastra diskey e si libravano sopra alcuni comlog.
Sedevo sullo sgabello, osservavo Gladstone e di tanto in tanto disegnavo uno schizzo.
Quel mattino, quando mi ero svegliato nella stanza per gli ospiti della Casa del Governo, mentre la vivida luce del sole Tau Ceti filtrava dalle tende color pesca che si erano aperte automaticamente al momento della sveglia fissata per le 6,30, per un istante mi ero sentito perduto, fuori posto, ancora all'inseguimento di Lenar Hoyt e con la paura dello Shrike e di Het Masteen. Poi, come se un potere sconosciuto avesse esaudito il mio desiderio di sognare i miei sogni, c'era stato un minuto di confusione, in cui mi ero alzato a sedere ansimando, allarmato, aspettandomi che il tappeto color limone e la luce color pesca svanissero come il sogno febbricitante che erano, lasciando solo il dolore e il catarro e le terribili emorragie, sangue sulle lenzuola, la stanza piena di luce che si dissolveva nelle ombre dell'appartamento buio in Piazza di Spagna, mentre su tutto incombeva il viso sensibile di Joseph Severn che si chinava, si sporgeva, osservava e aspettava che morissi.