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Era tutto così stupido, una specie di fantastica storia d’amore — un uomo che arriva e riesce a vincere le tue resistenze, trasportandoti nell’estasi silenziosa. In parte la colpa era di Norman: le sue preoccupazioni nel mandare avanti la scuola e il suo desiderio non ufficiale di diventare sindaco l’avevano portato a trascurarla.

Lei non era più una compagna, ma una donna che doveva rimanere dietro di lui, vivendo nella sua ombra.

Il problema stava nel fatto che non era mai stata capace di avere segreti con suo marito. I suoi occhi, troppo grandi per poter ingannare, la tradivano ogni sera, ed era convinta che lui si stesse prendendo gioco di lei, tormentandola in modo tale che alla fine avrebbe ammesso tutto davanti a lui.

Mentre andava a casa, assicurandosi di arrivare dalla direzione del posto nel quale la presunta riunione aveva avuto luogo, si mise una mano sul seno e avvertì qualcosa del tocco di Harry.

Sarebbe stato tutto maledettamente più facile, pensò, se solo fosse riuscita a decidere se il rimanere con Norman era frutto dell’abitudine o di amore autentico. E nel caso si trattasse della seconda ipotesi, cosa avrebbe fatto Harry se avesse deciso di troncare la loro relazione?

La temperatura si abbassò appena prima dell’alba e il suolo fu ben presto ricoperto della prima brina della stagione. I parabrezza avevano assunto un’aria spettrale e i prati sembravano coperti di zucchero: andando a scuola osservò che il suo fiato si trasformava in nuvolette. Era una sensazione piacevole e obbligò se stesso a camminare a grandi passi nel tentativo di svegliarsi. Non aveva dormito molto quella notte: qualcosa dentro di lui non faceva che ricordargli l’esame. Si era svegliato all’improvviso ed era rimasto seduto alla sua scrivania fino al sorgere del sole, rileggendo i suoi appunti e chiacchierando con il cavallo al galoppo che non aveva la minima pietà per i suoi dubbi.

Quando sua madre era tornata dall’assemblea del comitato, si era improvvisamente irrigidito, pensando di ricevere una sgridata per essere rimasto alzato così a lungo: si era stupito quando l’aveva udita passare davanti alla porta senza nemmeno fermarsi, emettendo strani suoni come se stesse piangendo.

Alla fine dell’isolato girò a sinistra, dopo avere attentamente evitato di guardare in direzione della casa di Chris. Attraversò la strada e accelerò il passo, tenendo gli occhi spalancati, sperando che quell’aria fredda potesse infondere un po’ di lucidità in quel suo cervello annebbiato.

Alla sua sinistra si trovavano piccole case ammassate l’una contro l’altra, soffocate da alberi, azalee e arbusti sempreverdi. Due isolati più in giù le casette erano interrotte da un alto cancello chiuso con grosse catene, quasi sepolto sotto l’edera che arrivava fino in cima. Sull’altro lato iniziava un prato ben curato che saliva e scendeva lungo lievi pendii, in direzione dei campi per gli allenamenti e dello stadio e arrivava fino alla parte centrale della scuola — un edificio di mattoni rossi e marmi bianco-grigi, due piani sul lato anteriore e tre su quello posteriore dove la terra scompariva; alte finestre, ampi corridoi piastrellati, un auditorio che poteva contenere più di ottocento persone, costruito negli Anni Trenta e mai sostituito.

L’Ashford Nord, dall’altro lato della città, era stata costruita nel 1959, con mattoni e marmo bianco: era un edificio a un solo piano, con le finestre verniciate e sembrava una fabbrica.

Dal marciapiede, Don salì tre gradini che portavano su uno spiazzo in cemento dal quale partivano altri dodici gradini bassi fino alle porte a vetri dell’ingresso. Di fianco all’entrata, l’erba era di un colore marrone spento e si vedevano visi affacciati alle finestre che scrutavano gli studenti che si affrettavano, per poi fermarsi a bighellonare in attesa del suono della campanella.

Non si fermò, nonostante qualcuno lo avesse chiamato; spinse la porta e svoltò bruscamente a sinistra verso gli armadietti che si trovavano in fondo al corridoio. Armeggiò con la combinazione del lucchetto e afferrò i libri che gli sarebbero serviti per le prime tre ore di lezione. Qualcuno passò correndo e lo salutò urlando: lui si limitò a fare un cenno con la mano senza nemmeno girarsi; era stanco e non aveva voglia di parlare con nessuno, almeno fino a quando non si fosse finalmente svegliato.

Ma non si svegliò.

Cadde quasi addormentato durante matematica, schiacciò un pisolino di un paio di minuti durante la lezione di inglese e, per quanto riguarda tedesco, dovette tenere le dita a lato degli occhi per impedire che questi si chiudessero. Nessuno degli insegnanti se ne accorse. E nessuno dei suoi compagni.

Poco prima delle dieci e mezzo, passò davanti all’ufficio con la porta a vetri e vide suo padre in piedi, di fianco al tavolo della segreteria, in compagnia del professor Falcone. Stavano parlando a bassa voce, ma piuttosto animati, a giudicare dal modo in cui suo padre sbatteva il giornale contro una gamba e si grattava quel suo naso da falco, quasi fosse un pugile; quando si mosse, con espressione preoccupata, il professore di biologia si precipitò fuori dalla porta a vetri, andando quasi a sbattere contro il ragazzo. Non si scusò nemmeno: se ne andò via e la gola di Don si fece completamente secca. Le voci nel corridoio risuonavano e gli fecero venire il mal di testa: ritornò barcollando verso il suo armadietto, tirò fuori il libro e gli appunti di biologia e si infilò nella sala da studio, cercando di concentrarsi su quell’argomento.

A sua madre non importava più niente di suo padre.

Aprì il libro e giocherellò con le immagini trasparenti che illustravano con colori vivaci le contrazioni interne di una rana.

A suo padre non importava niente di sua madre. Quella notte, nella sua stanza buia, quando avevano ricominciato a litigare dopo il ritorno di Joyce, gli era parso di aver udito il nome del professor Falcone.

La leggera colazione che si era preparato da solo gli si era bloccata sullo stomaco e ora minacciava di risalirgli in gola; dovette deglutire quattro volte per essere sicuro di non vomitare. Poi, senza nemmeno rendersene conto, iniziò a lamentarsi, e fu solo la risatina soffocata alle sue spalle che lo avvisò dell’arrivo del professor Hedley.

«Signor Boyd?»

Alzò lo sguardo e fissò un paio di occhiali con montatura di corno. «Sì?»

«Per caso si sta esercitando da solo per cantare nel coro, signor Boyd?»

Di nuovo la stessa risatina, e la risata schietta di Tar e Fleet, seduti dall’altra parte della stanza.

Impallidì. «No, signore.»

«Allora posso suggerirle di fare un po’ più di silenzio in modo che gli altri possano continuare il loro lavoro?»

«Sì, signore. Mi dispiace.»

«Grazie, signor Boyd.» Hedley si girò, lo stomaco di Don sobbalzò di nuovo e il rumore prodotto dall’acidità risuonò come un altro lamento. Hedley si girò lentamente. Era un uomo più largo che alto, con una frangia impomatata di capelli rossi e un bel paio di baffi. «Signor Boyd, forse non mi ha sentito.»

Avvertì il sudore che gli si gelava sotto le ascelle. Lo stavano guardando tutti, aspettando che tenesse testa al professore come avrebbero fatto Tar o Brian. Ma riuscì soltanto a sbattere le palpebre, indicando inutilmente la sua pancia e gesticolando per far notare il suo stomaco malandato, mentre l’acidità gli risaliva verso la bocca e le guance iniziavano a bruciare.

Hedley strinse le sue piccole mani dietro la schiena e ruotò sui talloni. «Come avrà certamente imparato nel corso dei suoi studi di storia americana, signor Boyd, questa è una società democratica. Non ci sono privilegi. Per nessuno. Quindi le consiglio di stare in silenzio, oppure dovrà trattenersi oltre il normale orario scolastico.»

Annuì tristemente.

Le risatine cessarono immediatamente, quando l’uomo ritornò al suo banco.

Privilegi, pensò con amarezza; quel figlio di puttana. Perché non era potuto andare all’Ashford Nord, come avrebbe voluto sua madre? A nessuno importa se tua madre insegna arte.