Anche se a tua madre non importava più niente di tuo padre.
Mise una mano sulla bocca e cercò di rimettersi a studiare, ma le parole erano annebbiate e le illustrazioni si agitarono come impronte digitali confuse; quando si ritrovò nel corridoio, la folla lo spingeva e lo urtava come fosse stato una foglia nella tormenta. Ma non gliene importava nulla. Avrebbe fatto un buon esame perché gli piaceva la biologia e tutto quello che gli insegnava sugli animali, come ad esempio la parte di zoologia di quel pomeriggio, subito dopo fisica. Ma non sopportava che lo urtassero e tutti quegli spintoni gli davano fastidio: si lasciò quasi prendere dal panico quando si accorse che la colazione aveva ripreso ad agitarsi. Barcollando andò verso i gabinetti dei ragazzi più vicini e, trovatone uno vuoto, si sedette con la testa stretta fra le mani. Iniziò a ruttare. Aveva in bocca un sapore di latte acido. Sputò a vuoto e si augurò di riuscire a vomitare una volta per tutte, o almeno di calmare lo stomaco e di stare un po’ meglio.
Suonò la campanella.
Saltò in piedi facendo cadere i libri, li raccolse e corse lungo il corridoio. Il professor Falcone stava chiudendo la porta.
«Ah, Donald», disse, «sono contento che tu sia arrivato.»
Riuscì ad abbozzare un sorriso sofferente e andò a sedersi il più in fondo possibile, come faceva sempre in tutte le materie, fin dove i professori permettevano. Poi lasciò cadere i libri a terra e rimase ad aspettare, mentre Falcone distribuiva i fogli e spiegava come andavano utilizzati. Il giovane professore aveva un’aria sportiva — né giacca, né cravatta, solo un paio di pantaloni lucidi e una camicia aperta sotto un golf leggero. I capelli non erano ben pettinati e i riccioli erano bagnati, come se fosse appena uscito dalla doccia. Il viso e il corpo erano del tipo mediterraneo: molte delle ragazze se lo covavano con gli occhi, e anche alcuni ragazzi.
Finalmente arrivò da Don, tenendo in mano il foglio e non mollandolo nemmeno quando Don lo afferrò. Continuava a parlare, invece, ricordando alla classe che quello era probabilmente il compito più importante di tutto il semestre, dal momento che valeva un terzo del voto finale: se questo fosse andato male, l’esame di gennaio sarebbe diventato davvero determinante.
Alla fine lasciò andare il foglio e sorrise.
«Mi sono spiegato, signor Boyd?»
Si era spiegato benissimo, ma Don non aveva capito perché si fosse rivolto proprio a lui.
Falcone si sporse in avanti, spingendo il foglio al centro del banco, poi aggiunse con calma: «È meglio che tu lo faccia molto bene, Boyd. Ne avrai bisogno».
Gli ci volle un intero minuto prima di riuscire a mettere a fuoco le domande. Falcone era davanti a lui, appoggiato alla lavagna con le braccia incrociate sul petto e gli occhi semichiusi. L’orologio sopra la porta scattò. Fleet stava osservando attentamente il suo polso, Tar scarabocchiava e Brian fissava il campo da football fuori dalla finestra. Don sbatté le palpebre e si sfregò gli occhi. Non riusciva a credere a quanto aveva udito e si rifiutava di credere che fosse una minaccia. Non poteva andargli male. Conosceva la materia e conosceva l’insegnante. Guardò la prima domanda e rispose quasi senza pensare, poi continuò con le altre, finendo giusto quando suonò la campanella.
Non poteva essere una minaccia.
I fogli vennero ammonticchiati sulla cattedra, i libri finirono nell’armadietto, Don prese il sacchetto di carta che conteneva il suo pranzo e uscì dall’edificio da una delle porte che davano sul retro. Nonostante la brina del mattino, il sole era caldo e Don attraversò un vialetto di cemento che terminava con un muro alto un metro e mezzo inframmezzato da aperture regolari. Ne scelse una, vi passò in mezzo e si ritrovò sulla gradinata più alta dello stadio, con il campo da gioco in basso e le gradinate inferiori destinate agli esterni di fronte. I sedili non erano altro che alti gradini di cemento e improvvisamente si rese conto che metà della scuola e delle attrezzature sembravano fatte con lo stesso materiale, probabilmente bianco e pulito in origine, ma divenuto grigio e marrone con il passare del tempo e a causa delle intemperie.
Il panino al prosciutto che si era preparato aveva un pessimo sapore.
Non poteva essere stata una minaccia.
«Se ti ammazzassi, non riuscirebbero mai a eliminare le tracce di sangue.»
Fece un salto e lasciò cadere il panino, poi lo afferrò di nuovo bruscamente e lanciò un’occhiata di traverso.
«Penetra fino in fondo, sai? Dritto nel cemento. Potrebbero strofinarlo per giorni e giorni ma arriverebbero soltanto a odiare le tue budella. È un pessimo modo per farsi commiserare, credimi.»
Fece un sorriso e si spostò di qualche passo.
Dietro di lui c’era Tracey Quintero che scuoteva la testa. «Sei davvero così giù?»
Aveva capelli e carnagione scuri, e il golf troppo largo sembrava ancora più bianco, mentre la gonna a pieghe aveva un’aria un po’ fuori moda. Non aveva delle belle curve, era piuttosto spigolosa, e Don pensò che fosse sì carina, ma non del tutto bella, tranne quando sorrideva mettendo in mostra tutti quei denti. Spagnola, e si chiedeva a volte come sarebbe stata con quei costumi colorati che indossavano i ballerini di flamenco.
«Credo di sì.»
«Biologia ti è andata male?» Aveva Falcone nel pomeriggio, ma non voleva delle risposte.
«Sì. No. Credo di no.»
«Come ti è sembrato?»
«Okay, credo.» Addentò il panino che sapeva di sabbia dopo essere caduto per terra. «Più difficile del solito.»
Lei annuì con indifferenza, sporgendosi in avanti per appoggiare le braccia sulle gambe, poi entrambi si misero a osservare due classi che facevano ginnastica: cercavano di correre attorno alla pista a sette corsie del campo di football. Una risata si alzò verso di loro, seguita da un fischio acuto, poi un intenso profumo di lillà lo assalì, confondendolo per un attimo: si girò, annusò quell’odore e capì che si trattava della ragazza.
Lei indicò un ragazzo alto e dinoccolato dai capelli rossi che correva sull’ultima curva senza il minimo sforzo. «È per questo che lo chiamano Fleet-la-lepre? Perché corre così forte?»
Devo essere gentile e risponderle, pensò; già, perché lo chiamano così? Mio Dio, devo persino parlare di lui, oggi.
«Sì», rispose.
«Ma allora dovrebbe correre invece di giocare a football», disse lei, mangiandosi un po’ le consonanti.
«Le borse di studio per il football sono molto più generose.»
«Accidenti», rispose lei, fissandolo negli occhi. «Mio Dio, mi sembra un po’ cinico.»
Lui si strinse nelle spalle. «È la verità. Fleet ha bisogno della borsa di studio per poter andare a scuola, e riesce ad averla con il football. È il miglior wide receiver della contea.»
«Pensavo che fosse Tar.»
Gli era rimasta una briciola di pane sulle labbra, lui la prese con un dito, la osservò e se la mise in bocca. «Tar gioca come running back.» Aggrottò la fronte. «E lo sai.»
Lei si appoggiò indietro, con i libri appoggiati al petto senza forma. «L’avevo dimenticato.» Lanciò un’occhiata dietro di lui, verso la scuola. «Ehi, Don!»
«Eh?»
«Sai che intenzioni ha tuo padre per quanto riguarda lo sciopero?»
Lui guardò Fleet che stava gesticolando e lanciando baci a Tracey. «Non lo so. Non sono il suo consigliere politico.»
Tracey ignorò quella battuta sarcastica. «Spero che faccia qualcosa. Voglio dire, accidenti, siamo all’ultimo anno! Se ci abbassano i voti per uno sciopero … mio Dio!» Faceva dei segni sulla copertina di uno dei suoi libri. «Mio padre li ammazza tutti, te lo assicuro. Davvero.»
Suo padre era un poliziotto. Don sapeva che lo avrebbe fatto sul serio.
«Sinceramente non so che cosa succederà.»