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«Ah. Okay.» Guardò l’orologio. «Sta per suonare la campanella.»

«Sai che cosa vorrei fare?» disse Don, nella speranza che lei non se ne andasse. «Vorrei avere il coraggio di bigiare almeno una volta prima di finire la scuola. Solo una volta.»

«Tuo padre ti ammazzerebbe», rispose lei in fretta.

«Lo farebbe davvero», ammise lui con una smorfia maliziosa. «Ma scommetto che sarebbe un sacco divertente.»

Lei si mise a esaminare il suo viso, poi i suoi occhi e alla fine gli fece un grande sorriso. «Non hai la faccia tosta per farlo. Ti conosco abbastanza bene per saperlo.»

«Esattamente», rispose lui, senza più malizia. «Sono troppo prevedibile.»

«Sei degno di fiducia», lo corresse lei. «Tu sei degno di fiducia, ecco la verità.»

Le classi dei ragazzi sfilavano lungo il campo, Fleet era rimasto indietro e cingeva con un braccio una ragazza con la coda di cavallo.

«Stupendo. Lo farò incidere sulla mia tomba. Verrò ricordato come il vecchio nonno di qualcuno famoso.»

L’espressione di lei si inasprì. «Hai la luna storta, eh? Cristo!»

Si alzò contemporaneamente a Tracey, fece cadere il sacchetto del pranzo e dovette rincorrerlo per evitare che il vento lo facesse scendere lungo i gradini. Poi la seguì incespicando, raggiungendola appena in tempo per aprirle la pesante porta di vetri e metallo. Lei gli fece l’occhiolino e un inchino beffardo, poi entrò ed entrambi rimasero in piedi sul pianerottolo proprio mentre la campanella suonava. Sulle scale si udivano rumori di scarpe che battevano sui gradini metallici; i corridoi risuonavano.

«Ti andrebbe di andare al cinema o da qualche altra parte domani sera?»

Lei apparve sorpresa all’udire quella domanda, quasi quanto lui nel formularla. Cristo, pensò, Brian mi ammazzerà.

Le scale si riempirono di gente e si ritrovarono separati, ma prima di andarsene lei gli urlò un «Ti chiamo stasera», che era poi la classica frase poteva voler dire tutto e niente. Cristo, pensò mentre scendeva in palestra, sei davvero un idiota, Boyd. Santo cielo, sei un perfetto idiota.

Quando arrivò negli spogliatoi e iniziò a cambiarsi, Fleet era ancora lì e Tar stava entrando, passandosi un orrendo pettine nei capelli incredibilmente neri. Iniziarono a parlare della partita che avrebbero giocato contro la squadra della Nord durante il fine settimana, poi parlarono dello Squartatore e infine dello sciopero che li avrebbe mandati in vacanza fino a dopo Natale.

«Ehi, Donny», urlò Tar allacciandosi le scarpe da tennis, «di’ a tuo padre di non rompere più le balle, ok? Ho proprio bisogno di un po’ di vacanza.»

«Col cazzo», disse Fleet, a torso nudo e con un asciugamano sulle spalle. «Mio caro Tar, a lui non gliene frega niente di noi poveri cristi. Non sai che in realtà è una spia del suo paparino, incaricato di controllare fra le fila? Agente Segreto dell’ultimo anno.»

Anche se Tar stava soltanto scherzando, il viso di Don si indurì. Si alzò, incamminandosi attraverso il corridoio affollato. Un gruppo di ragazzi cercò di prenderlo in giro per suo padre e per lo sciopero, ma lui riuscì a liberarsene con rabbia. Era stanco di sentire quelle storie, stanco di essere chiamato spia — e alcuni di loro lo dicevano sul serio — stanco di essere chiamato Donny — il Papero, stanco di essere trattato in modo speciale anche se tutti affermavano il contrario.

Si fermò sul pavimento lucido della palestra, con le mani sui fianchi.

Brian urlò:«Ehi, Paperino!» e una palla da basket lo colpì direttamente sul naso.

4

Le immagini fluttuavano nella nebbiolina rossastra: una lince nascosta in alto, fra gli alberi, con i denti scintillanti, le unghie simili a lame di acciaio alla ricerca di una gola da afferrare; un leopardo appostato nell’alta erba della savana in una torrida giornata estiva, con la preda appena cacciata e i muscoli delle zampe guizzanti per la tensione; un falco che afferra una lepre da terra; un cavallo nero che fa tremare il suolo galoppando sulla strada, con il fuoco che gli esce dalle narici e brucia la terra sottostante.

Immagini che gli fecero stringere i pugni, mentre le unghie si conficcavano nei palmi scavando crateri e il petto gli si alzava e abbassava con una rabbia difficile da contenere.

Immagini: la palla da basket in lenta progressione che lo colpiva con violenza al volto, le ginocchia che gli cedevano, le lacrime che colavano dagli occhi, il sangue che macchiava il pavimento della palestra: il ruggito di sorpresa, l’improvviso silenzio, la risata. La risata finché l’insegnante di ginnastica vide il sangue, la risata nel corridoio, mentre lo portavano quasi di peso al primo piano, e la smorfia di Falcone, sorpreso sulla porta a flirtare con Chris.

L’unica a non ridere fu l’infermiera.

Immagini: la pallacanestro, il leopardo, la palestra, il falco, il corridoio, le scale, il cavallo che aspettava nell’ombra.

Emise un lamento, girò la testa dall’altra parte e rimase disteso sul lettino dell’infermeria per un quarto d’ora prima di riuscire ad alzarsi di nuovo in piedi. Aveva le narici piene di cotone e un lancinante pizzicore gli attraversava la guancia destra. Quando finalmente riuscì a sedersi, si guardò allo specchio che stava sopra il lavandino: vide l’inizio di uno stupendo e grottesco occhio nero.

«Merda», disse.

Afferrando un fazzoletto di carta dal distributore automatico appeso al muro, si pulì la faccia sporca di sangue rappreso e cercò di pettinarsi con le dita. L’infermiera se n’era andata. Si guardò attorno, controllò la stanza, poi tolse il cotone con estrema cautela. Tirò su con il naso e sentì il sapore del sangue; tirò su ancora e si tamponò il naso con un fazzoletto bagnato, poi aspettò senza respirare fino a quando fu certo di non rimettersi a sanguinare. Trovò un foglio per i permessi speciali, lo compilò e lo firmò. Guardando l’orologio, si era reso conto che avrebbe ancora fatto in tempo a seguire l’ultima lezione, zoologia, al terzo piano. Il corridoio era vuoto: cercò di fare in fretta senza tuttavia correre, arrivò fino alle scale e salì i gradini due alla volta, con la testa bassa, respirando pesantemente con la bocca.

Qualcuno, più di una persona, scendeva dal piano di sopra.

Ignorò tutti, volgendo altrove lo sguardo per evitare che notassero quanto era successo e mormorando una bestemmia quando lo urtarono con forza facendolo girare su se stesso e mettendogli in mano qualcosa. Urlò qualche parola in segno di protesta e afferrò la balaustra in ferro, finendo seduto sui gradini. Gli girava la testa e aveva la nausea: strinse i denti fino a quando si sentì un po’ meglio. Rimase così per un minuto cercando di recuperare le forze, poi si alzò in piedi; quando arrivò alla porta, si scontrò con il professor Hedley.

«È così!» esclamò il professore con rabbia.

Don aggrottò le sopracciglia. «Signore?»

Hedley tese una mano, in attesa, poi gli afferrò un braccio, lo tirò a sé, prese qualcosa che aveva in mano e glielo mise davanti agli occhi con fare accusatore.

«Scommetto che non l’hai mai vista prima, vero, Boyd?»

Era una boccetta senza tappo e quando quell’uomo massiccio iniziò a sventolargliela sotto il naso, si rese conto che parte della nausea che avvertiva, era dovuta alla puzza che emanava da quella boccetta. Si coprì la bocca e girò la testa.

«Non sei stato abbastanza furbo, eh, ragazzo?»

«Io … che cosa?» Guardò alle spalle dell’uomo e vide una dozzina di ragazzi fermi in piedi. Alcuni erano appoggiati al muro e chiacchieravano a bassa voce, altri si tenevano un fazzoletto premuto contro il naso. Qualcuno lo osservava e faceva smorfie, gli altri si limitavano a guardarlo.

«Hai fatto proprio una cosa stupida, Boyd.»

«Fatto cosa?» Il naso gli faceva male. Aveva un mal di testa che gli arrivava fin dietro il collo. Indicò la boccetta. «Quella? Io non ho fatto niente.»