Emise un gemito: si strinse ancor più nelle spalle.
Aveva aspettato quasi un’ora nell’ufficio di suo padre, prima che questi si decidesse ad arrivare. Don si era alzato in piedi di scatto, ma gli era stato detto di restare seduto. Un’occhiata nervosa ai fogli, l’ordine di non essere interrotto, poi era iniziata la ramanzina: suo padre gli aveva parlato dell’immagine che entrambi dovevano mantenere, nei confronti del corpo docenti e degli studenti. Norman aveva sventolato la boccetta come se fosse sul punto di lanciarla. Don gli aveva spiegato per la seconda volta che qualcuno — ora era sicuro che si trattasse di Pratt — gli aveva messo in mano la boccetta mentre scendeva le scale. Mentre parlava la faccia gli faceva male e lui continuava a toccarsi una guancia per assicurarsi che non si fosse gonfiata. Suo padre aveva capito la situazione e si era mostrato dispiaciuto per la ferita, ma si era rifiutato di perdonarlo completamente anche se si era lasciato commuovere al punto da credere Brian capace di un tale scherzo.
«Non ho detto che è stato lui», aveva ritrattato improvvisamente Don, temendo che suo padre volesse chiamare il ragazzo e iniziare senza volere una guerra. «Mi è soltanto parso che fosse lui.»
Norman sembrava dubbioso e Don non riusciva a capire. In tutta la vita non aveva mai fatto nulla di simile; gli avevano detto moltissime volte che non doveva approfittare della sua posizione — qualunque questa fosse — ma nemmeno comportarsi come se fosse stato un ragazzo qualsiasi. Non lo era. Il destino lo aveva reso speciale, con problemi speciali. E Norman si aspettava molto da lui, non certo che finisse così.
«Finire così come?» Si era alzato di scatto in piedi e si era avvicinato alla scrivania. «Papà, perché non vuoi ascoltarmi? Non sono stato io!»
Norman lo aveva fissato senza dire una parola.
«D’accordo, ho lasciato l’infermeria quando non avrei dovuto, questo è vero, e mi sono firmato la giustificazione da solo. D’accordo, ho sbagliato. Okay. Ma non ho tirato quell’affare nell’aula del signor Hedley!»
«Donald», aveva detto suo padre con perfetto autocontrollo, «non tollero che tu mi parli in questo modo, specialmente qui dentro.»
«Oh, Cristo!» aveva esclamato lui girandosi.
«E smettila di bestemmiare. Chiaro?»
Don si era arreso. Sospeso tra fiducia e sospetto, con la ripresa dei soliti discorsi triti e ritriti, Don si era arreso, non gliene importava più nulla, e nemmeno si era preoccupato di chiedere se i sei giorni di punizione sarebbero cominciati subito il giorno seguente.
«Puoi considerarti fortunato», gli aveva detto Norman, accompagnandolo fuori dalla porta mentre suonava l’ultima campanella. «La maggior parte degli altri ragazzi sarebbe stata sospesa.»
«E allora sospendimi!» aveva risposto sorpreso di cogliere un tono di preghiera nella sua voce. «Per favore, sospendimi.»
«Non fare lo spiritoso, figliolo, o lo farò davvero.»
Don si era scostato dalla mano che lo stava guidando lungo il bancone, ignorando le occhiate curiose delle cinque segretarie.
«Non hai capito», aveva detto uscendo dalla porta. «Proprio non hai capito.»
Aveva raccolto i suoi libri e se n’era andato a casa. Sua madre non sarebbe stata di ritorno prima di un’ora e suo padre sarebbe rimasto alla Sud fino all’ora di cena. Aveva quindi tempo per cambiarsi i vestiti, mettersi un paio di jeans, prepararsi un panino con burro di arachidi e andare a fare due passi.
Poco prima che si facesse buio era entrato nel parco.
…e allora il corvo…
Si fermò e alzò la testa.
Non riusciva a vedere le luci che circondavano lo stagno ovale, ma era sicuro di avere udito qualcuno avvicinarsi da quella direzione. Rimase in ascolto, con le mani strette alle ginocchia: probabilmente si trattava di sua madre, che era venuta per riportarlo a casa, sgridarlo e fargli poi mangiare una fondina di minestra oppure bere del latte con il cacao. Quando non udì più quel rumore, si convinse che quello che aveva udito non era stato rumore di passi.
Lo udì di nuovo.
Proveniva da sinistra, laggiù nell’oscurità.
Un solo suono, acuto sul marciapiede, come di ferro che colpisce ferro, ma in modo estremamente delicato.
Senza guardarsi attorno, chiuse la cerniera del giubbotto e si alzò in piedi, lentamente, muovendosi furtivamente verso lo stagno, per riuscire a vedere attraverso quelle luci.
Di nuovo. Acuto. Ferro contro ferro.
Non era certo sua madre; era qualcun altro.
«Ehi, Jeff, sei tu?» urlò, cacciandosi le mani in tasca.
Ferro contro ferro. Un suono sordo.
«Jeff?»
Si alzò il vento, sparpagliando le foglie ai suoi piedi e facendogli girare la testa e chiudere gli occhi. Il laghetto si increspò, si spezzò un ramoscello e qualcosa di piccolo e leggero si mosse rapidamente su un tronco.
Deglutendo e guardando una volta verso l’uscita, camminò attorno al laghetto e poi fece qualche passo lungo il sentiero.
Con la luce alle spalle, la sua ombra si allungava fino al palo della luce, una quindicina di metri più avanti. Ma non riuscì a vedere nulla che avrebbe potuto produrre il suono che aveva udito. Aggrottò le sopracciglia, più per il nervosismo che per la perplessità, e continuò a camminare, con cautela, tenendosi su un lato e sobbalzando ogni volta che il gomito sfiorava un arbusto.
Ferro contro ferro, sordo, un’eco.
Iniziò a chiamare di nuovo, poi cambiò idea e fece un goffo dietro-front. Qualsiasi cosa fosse, non voleva essere vista, e questo gli andava bene: anzi gli andava benissimo, era perfetto. Accelerò il passo, tenendo le spalle curve, con le guance infuocate, mentre il vento, incalzante, lo costringeva ad andare sempre più in fretta e le punte delle orecchie gli bruciavano. Le scarpe facevano rumore, sbattendo contro le foglie, e la sua ombra si era fatta più debole, nonostante la luce dei lampioni. Si voltò soltanto una volta, ma non vide altro che i lampioni riflessi nel laghetto ricoperto di ghiaccio, simile a un bianco palcoscenico scintillante.
Ferro contro ferro.
Corse gli ultimi metri, scivolò sul marciapiede e rimase a bocca aperta di fronte al traffico del viale. L’aria era più calda e lui respirò profondamente, rimproverandosi di essere stato così stupido.
Infine si girò per controllare un’ultima volta.
E udì ferro contro ferro, un suono smorzato e lento, ma non riuscì a vedere che cosa c’era là dietro, nell’oscurità.
Tanker si rannicchiò fra i cespugli, coprendosi il viso con le mani e pregando il cielo che la luna lo tenesse nascosto da qualunque cosa stesse camminando nell’oscurità.
All’inizio era stato perfetto. Aveva avvertito quella pressione ormai familiare per tutto il giorno: era cresciuta nel suo petto e lo aveva fatto gonfiare, era cresciuta nella sua testa e l’aveva fatta dolere. Quando era iniziata si era sforzato di ignorarla, pensando che fosse dovuta alla sua fame di cibo; così si era messo a rovistare fra i rifiuti, cercando qualche lattina, poi aveva elemosinato quattro dollari di fronte al teatro della strada principale e si era ingozzato di hamburger e vino scadente. Ma la pressione non se ne era andata e le sue mani avevano iniziato a tremare non appena si era reso conto che non poteva più negare la sua presenza — sarebbe accaduto molto presto, non c’erano dubbi. Forse quella stessa notte, e quel ragazzo lo avrebbe aiutato.
Lentamente, e usando le tecniche che si ricordava, più di qualche altro sistema che non aveva certo imparato da quei fottuti ragazzini dell’esercito, era riuscito ad aprirsi un varco attraverso i cespugli, verso il laghetto, non appena aveva udito quella voce solitaria raccontare a se stessa una storia. Era troppo bello per essere vero, ma quando aveva sbirciato fra i cespugli, si era messo quasi a urlare. Era il moccioso di qualche notte prima, quello vestito di nero che raccontava la storia di un corvo gigante. Ed era lì, con l’aria di chi si è appena lasciato sfuggire una ragazza e, per l’amor del cielo, sembra quasi incredibile, si stava raccontando una stupida storia.