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Il vento sollevò della polvere e i due ragazzi dovettero proteggersi il viso.

«La scuola!» esclamò Jeff, dandogli una pacca sulla spalla.

«Già. La scuola.»

Lichter annuì, barcollando leggermente a sinistra mentre iniziava a pedalare, poi virò improvvisamente a destra e sparì. Don si inginocchiò per comporre la combinazione del lucchetto che chiudeva la catena, poi si mise a cavalcioni sulla sella e impugnò il manubrio. Era dritto, aveva perso la sagoma da corsa che aveva una volta. L’aveva modificato subito dopo aver comprato la bicicletta. Non gli piaceva stare piegato, gli dava l’impressione di non avere il controllo e di traballare se non avesse raddrizzato la schiena. Cominciò a pedalare e si fermò una volta arrivato sul marciapiede. A destra, in lontananza giù per la strada, si vedevano in maniera offuscata le luci al neon dello shopping centre di Ashford; davanti a lui, c’era la piccola isola verde che separava il vialone in due corsie; sulla sinistra, la zona si allargava in un quartiere residenziale con case pulite e ben tenute, sebbene, con il passare del tempo, i mattoni fossero diventati marroni e le cromature in alluminio si fossero appannate.

Si guardò alle spalle e improvvisamente sorrise.

Sotto la luce dei lampioni laterali, sul selciato, si vedeva una piuma. La piuma di un corvo, lunga due volte la mano di un uomo. Sembrava quasi blu, era stata trasportata dal vento ed era caduta proprio lì vicino.

Rimase ad aspettare che si fermasse definitivamente accanto alla ruota posteriore della bicicletta e scosse leggermente il capo. Ragazzo, pensò, dove ti eri cacciato quando quel moccioso ha aperto la sua boccaccia?

Ma, come avrebbe detto anche Jeff, quella era la storia della sua vita. Grazie al buon Dio, non c’erano corvi nel suo destino.

Tanker Falwick bestemmiò tra i denti. Le spine del cespuglio dalle foglie rosse si erano impigliate nella manica del suo cappotto e lo stavano imprigionando; era impossibile muoversi con velocità, senza fare rumore. Diede uno strattone rabbioso, si alzò e si appoggiò al muro. Gemette per il dolore che sentì alla gamba, proprio nel momento in cui stava svanendo anche l’ultima possibilità di attaccare una preda decente. Il ragazzo se n’era andato a bordo della sua bicicletta a dieci marce e aveva ormai attraversato la strada. Lontano dal parco, alla luce della luna.

Era troppo tardi. Maledizione, troppo tardi.

«Merda», esclamò ad alta voce, tirando con violenza il braccio impigliato. «Sporchissima merda!»

Dopo un ulteriore sguardo alla luna, oltre gli alberi, riprese a bestemmiare tra i denti, augurandosi che il moccioso, che aveva sperato di ammazzare qualche minuto prima, non fosse l’unica possibilità della serata. Non c’era molta carne in giro, e il suo cuore era troppo piccolo, e fantasticare di sgozzare un ragazzino non era gratificante come farlo nella realtà.

Passarono molte macchine, un autobus mezzo vuoto, un furgoncino con tre punk pigiati l’uno contro l’altro che cantavano a squarciagola e un’altra decina di auto. Non se ne fermò nessuna e, tornando verso gli alberi, non riuscì a sentire altro che il rumore delle sue scarpe incartapecorite che incespicavano nelle foglie. Si fermò un paio di volte prima di sistemarsi definitivamente. Non voleva più ascoltare e, con tutta probabilità, ormai non c’era più nessuno.

Il posto riecheggiava ancora delle voci dei bambini e ogni opportunità che aveva avuto di avvicinarsi a loro era stata ostacolata in un modo o nell’altro.

Si passò la mano sporca e puzzolente sulla bocca senza nemmeno accorgersi dei peli ruvidi che aveva sul mento, sulle guance giallastre, sul collo pieno di rughe. Annusò, tossì e sputò nell’oscurità. Poi si coprì il petto con la giacca stracciata, voltò le spalle al vento che soffiava ormai forte e si diresse verso il centro del parco. Aspettò all’ombra per altri cinque minuti, poi uscì allo scoperto e tirò un lungo sospiro.

Non gli piaceva trovarsi di nuovo in quel posto. Non gli piaceva per niente, nonostante l’abitudine di stare nei luoghi oscuri. C’erano troppi rumori che non conosceva e troppe ombre che lo inseguivano, come prima aveva fatto lui con i bambini che si stavano affrettando verso i propri genitori.

Una notte da dimenticare, in tutto e per tutto — a parte la musica. Si fermò al laghetto, diede un’occhiata al vialetto, si inginocchiò sulla riva di cemento e si sporse a bere un po’ d’acqua fresca.

La musica era stata piacevole. Niente male per un gruppo di fottutissimi ragazzini universitari, ed era persino riuscito a riconoscere qualcuno degli orchestrali. Era rimasto nascosto all’ombra di un lauro pieno di foglie sulla sinistra del palco, annuendo, fischiettando silenziosamente e applaudendo senza far rumore alla fine di ogni pezzo. Aveva pregato che nessuna testa matta decidesse di andare a fumare tra i cespugli durante il programma. Quella sera non aveva problemi di tipo sessuale. Qualsiasi ragazzino avrebbe potuto prendere degnamente il posto di una qualunque puttanella.

Quando si era accorto che non funzionava e che non riusciva a convincere nessuno con la sua forza di volontà, si era avviato verso l’uscita a sud, avendo notato che gli ultimi ad andarsene dallo spettacolo avevano preso quella direzione. Aveva sperato di trovare ancora qualcuno, ma quei ragazzi erano troppo bravi, troppo ben educati, come quei bambini che avevano ascoltato quello sporco bastardo in tuta nera mentre raccontava loro un’assurda storiella di uno stupido corvo gigante.

Gli altri più grandicelli, i maledetti, i mocciosi che avrebbero potuto soddisfarlo anche di più, erano andati verso la strada a gruppetti, come se li avesse tenuti insieme la colla. Specialmente le puttanelle.

Tornò sui suoi passi e si asciugò la faccia con la manica della giacca.

C’era stato un unico momento in cui era stato vicino al ragazzo con la tuta nera. Quando il moccioso aveva indicato proprio il punto in cui si era nascosto; era sicuro di essere stato sorpreso, i poliziotti l’avrebbero inseguito e l’avrebbero fatto fuori senza fargli nemmeno il processo.

Poi il ragazzo aveva farfugliato qualcosa, c’era stata una discussione e Tanker aveva avuto la possibilità di scivolare via senza lasciare tracce.

Quella, pensò con soddisfazione, era stata la parte più facile — perché lui era un lupo mannaro.

Aveva preso piena coscienza della sua condizione molto tempo prima, praticamente subito dopo la liquidazione e tutto il resto. Dicevano che aveva perso il suo tatto con le nuove reclute; dicevano che non si confaceva più all’immagine dell’«esercito moderno»; dicevano che beveva troppo; dicevano che ormai era contro il regolamento picchiare i novellini che non obbedivano ai suoi ordini. Dicevano. Loro, che erano solo dei neonati, quando lui aveva firmato con il suo nome in quell’ufficio puzzolente di Hartford. E gli avevano anche detto che sarebbe stato in grado di trovare un altro lavoro da qualche altra parte e che con la sua pensione avrebbe potuto campare tranquillamente per il resto della vita. Comunque, dopo trent’anni, il resto della sua vita non era ancora passato.

Era partito da Fort Gordon, in Georgia, subito dopo esserci arrivato — a piedi, portandosi i suoi oggetti personali in spalla. Rifiutando diverse offerte di passaggio, era arrivato ad Atlanta, aveva messo le sue cose in un deposito alla stazione degli autobus, poi se n’era andato in giro a far fuori il primo ragazzino sotto i venti che gli era capitato per le mani.

C’era stata luna piena quella notte e, anche se un gruppo di persone l’aveva visto e l’aveva inseguito, era riuscito a scappare. Si era accorto subito della connessione, perché, scappando, aveva sempre la sua ombra alle spalle e così aveva deciso che la luna sarebbe stata per sempre il suo amuleto. L’avrebbe aiutato nella sua nuova vita da civile a fare soldi e a rovinare quei giovani bastardi che credevano di saperla lunga sull’esercito.

Però non era andata così. Per lui erano stati fatti dei piani, che, a quel tempo, ancora non conosceva.