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«Non è esattamente la stessa cosa, Norm, e lo sai bene. Là tu non sei suo padre, non nel vero senso della parola.»

Lui sprofondò ancora di più nella poltrona, stirandosi le gambe. «Piantala Joyce, va bene? Sono stanco e il ragazzo è in grado di cavarsela da solo.»

«Se è per questo, anch’io sono stanca», rispose lei seccamente, «ma io devo giustificarmi e tu no, vero?»

«Giustificare che cosa?»

Chiuse gli occhi per un attimo. «Niente», disse con leggero fastidio, prendendo un pacco di opuscoli e facendo scorrere le pagine senza nemmeno guardarle, per poi gettarle da parte. Raccolse poi un foglietto, il programma per la Festa di Ashford. Era una delle responsabili per il coordinamento dei festeggiamenti nei due licei della città. Fece cadere anche quello e strinse la camicia. «Sono anche preoccupata per tutto quel correre che fa.»

Lui ne fu sorpreso e non fece nulla per nasconderlo.

«Intendo dire», aggiunse in fretta, «non è che si limiti al jogging. Non gli interessa mantenersi in forma, oppure entrare nella squadra di atletica o di corsa. Lui si limita a … correre.»

«Be’, che cosa c’è di male? Gli fa bene.»

«Ma è sempre solo», ribatté lei, guardandolo come se dovesse capire. «E non ha nemmeno orari fissi, niente del genere. Corre quando gli gira. E non qui vicino, dietro l’isolato — va sempre nella pista della scuola.»

«Joyce, questo non ha senso. Perché mai dovrebbe correre su un terreno tutto accidentato, rischiando di rompersi una gamba o di slogarsi una caviglia, quando ha una pista a sua disposizione?»

«È solo … non so bene. Solo che mi sembra che ci sia qualcosa che non quadra.»

«Forse lo aiuta a pensare. Ci sono ragazzi che fanno sollevamento pesi, altri che danno pugni a un pallone e Donald corre. E allora?»

«Se ha dei problemi», disse lei in tono serio, «non dovrebbe … non dovrebbe fuggire. Dovrebbe venire da noi.»

«Perché?» chiese freddamente il marito. «Considerando come sei stata ultimamente, perché dovrebbe farlo?»

«Io?»

Quello sguardo lo faceva sentire a disagio.

«D’accordo, noi.» E rimase con gli occhi chiusi.

Dopo qualche istante: «Norman, pensi che abbia dimenticato quella storia dell’ospedale per gli animali?»

«Credo di sì. È dal mese scorso che non ne parla più. Almeno non con me.»

«E nemmeno con me.»

Lui riaprì gli occhi, fissando il camino vuoto, poi si passò distrattamente un dito lungo il naso adunco. «A pensarci bene, credo che non abbiamo affrontato la questione nel modo giusto. Avremmo potuto mostrare un po’ più di entusiasmo.»

«Sono d’accordo.» Lei si sfregò le ginocchia.

Norman assunse un’aria furtiva. «Forse», disse, gettando un’occhiata verso sua moglie, «dovremmo fare come quella coppia di cui parlava il Times. Quelli che affermavano di aver risolto i problemi di sesso del loro figlio portandolo in un bordello». Ridacchiò sotto i baffi. «Forse è vero. Forse dovremmo metterlo in posizione orizzontale.» Rise ad alta voce, scuotendo la testa e cercando di immaginare suo figlio — non certo un attore del cinema, ma nemmeno un mostro — che scopava con una donna. Non ci riusciva. Per quanto ne sapeva, Donald era quasi completamente asessuato.

«Mio Dio», mormorò lei.

«Cristo, stavo solo scherzando.»

«Mio Dio.» Fece un gesto come se volesse afferrare qualcosa sul tavolo, poi ci rinunciò e si alzò in piedi. «Vado a letto. Domani ho lezione.»

Lui aspettò che se ne fosse andata, poi si alzò e la seguì.

«Non è necessario che venga anche tu.»

«Lo so», rispose, «ma domani devo essere in forma.»

Sul pianerottolo lei si girò a guardarlo. «Finiremo con il divorziare, vero?»

Lui afferrò la balaustra con forza e scosse la testa. «Mio Dio, Joyce, possibile che ogni volta che discutiamo finisci parlando di divorzio? C’è un sacco di gente che litiga forte, ma non finiscono mica tutti davanti a un avvocato.»

La seguì lungo il corridoio, oltre la stanza di Don, fino alla loro. Lei accese la lampada sul cassettone e aprì la porta del bagno. Si sbottonò la camicia mentre lui si chinava per togliersi le scarpe. In piedi, sulla porta, con la pallida luce proveniente dalle piastrelle e dal pavimento del bagno, lasciò cadere la camicia e le diede un calcio. Non indossava il reggiseno ma, senza nemmeno vederla in faccia, lui capì che non si trattava di un invito.

«Io so perché», disse lei, armeggiando con la fibbia dei pantaloni.

«Perché, che cosa?»

«Perché non mi ami più.»

«Oh, per l’amor del cielo!» Si era tolto la camicia e stava cercando il pigiama sotto il cuscino.

«No, davvero, lo so. Tu credi che fra me e Harry ci sia qualcosa. È per questo che sei così duro con lui. È per questo che ti rendi ridicolo quando gli parli come stasera.»

«Stai davvero esagerando», disse lui senza troppa convinzione. Si infilò la giacca del pigiama e slacciò la cintura, lasciando cadere i pantaloni. «Spero che tu abbia gusti migliori.»

Lei si voltò verso il lavandino, facendo scorrere l’acqua calda che annebbiò lo specchio. «Non devi fingere, Norman. Lo so, lo so.»

Non aveva nient’altro oltre le mutandine. Aveva i seni ancora piccoli e sodi e una pancia piatta per essere una donna che aveva avuto due figli e non faceva ginnastica. Le sue gambe erano talmente lunghe da sembrare interminabili. La osservò mentre si piegava in avanti per spremere il dentifricio sullo spazzolino, la osservò mentre si guardava allo specchio, girandosi leggermente a destra e a sinistra. La osservò, rattristato, perché non gliene importava più nulla.

È una merda, pensò; mio Dio, la vita è una merda.

Si agitò sotto le coperte, sfregandosi gli occhi per cercare di eliminare quegli strani pensieri improvvisi, poi la guardò di nuovo. «È la verità?» le chiese alla fine. «Con Harry, voglio dire.»

«Sei un bastardo», rispose lei, sbattendo la porta.

Il cappotto non sarebbe stato sufficiente, ma Tanker non aveva nient’altro che potesse essere usato come coperta. Le foglie lo coprivano quasi interamente e i cespugli lo riparavano dal vento, ma non era abbastanza.

Per rilassarsi davvero aveva bisogno di una puttana. Come quella di Yonkers. Due capezzoli che saltavano fuori dal maglione, un culo sodo da ragazzina stretto nei jeans. Mentre la trascinava lungo quel vicolo, dopo averle dato un pugno per non farla gridare, aveva capito che non se ne sarebbe andato senza prenderne almeno un pezzo. Quando l’aveva sbattuta per terra, aveva gli occhi spalancati, e gli aveva sputato sangue in faccia quando l’aveva colpita per la seconda volta: ma era calda, su questo non c’erano dubbi. Ed era rimasta calda fin quando le aveva aperto la gola con il coltello, per poi finire il lavoro con le unghie che si era lasciato crescere appositamente.

Lei era calda e lui adesso aveva freddo, così decise che la prossima doveva essere una puttanella.

Rabbrividì stringendosi ancora di più sotto il cappotto e le foglie, poi chiuse gli occhi e sospirò, aspettando il sonno.

Dopo un’ora aspettava ancora, con gli occhi spalancati che osservavano.

Era il parco.

La luna era alta e lo stava sempre osservando, bisbigliandogli i suoi ordini, ma c’era qualcos’altro, qualcosa nel parco che stava aspettando proprio lui. Cercò di prenderla sul ridere, ma quella sensazione non se ne andava; cercò di cancellarla scuotendo la testa con forza, ma non se ne andava.

Era là fuori, da qualche parte, e sapeva che se non fosse stato per la luna, sarebbe già morto.

Domani, promise a se stesso, mettendosi una mano sul cuore; domani avrebbe trovato una puttanella e le avrebbe tagliato la gola. E se non ci fosse stata la luna, avrebbe ucciso da qualche altra parte.