Non era perché ricevesse raramente dei regali: anzi, non passava settimana senza che qualche viaggiatore di passaggio gliene portasse uno. La casa ne era piena e in cantina c’era una parete coperta di scaffali pieni di oggetti che gli erano stati regalati. Forse la statuetta gli aveva fatto tanto piacere perché era un dono venuto dalla Terra, da un uomo come lui.
Mise il pacchetto della statua sotto il braccio, raccolse il fucile e la posta e riprese la via di casa, seguendo il sentiero angusto che un tempo era servito ai carri che andavano alla fattoria.
Negli antichi solchi scavati nell’argilla dai cerchioni dei vecchi carri, l’erba era cresciuta fitta; ancora oggi erano canali di terra nuda e compatta in cui nessuna pianta era riuscita ad affondare le radici. Ai lati del sentiero spuntavano ciuffi di arbusti verdi che andavano dai margini della foresta fino al vecchio campo, alti quanto un uomo o più, di modo che si camminava in mezzo a una navata verde.
In certi punti, quasi inesplicabilmente, forse per la natura del suolo o per un capriccio della natura, la vegetazione non aveva attecchito e la vista spaziava dalla collina fino al versante opposto della valle in cui scorreva il fiume.
Da uno di quei punti vantaggiosi Enoch notò un guizzo di luce proveniente da un boschetto ai margini del vecchio campo, non lontano dalla sorgente dove aveva visto Lucy.
Aggrottò la fronte e aspettò che il fenomeno si ripetesse, ma non riuscì a vedere niente.
Era uno di quelli che lo sorvegliavano, pensò, e si serviva di un binocolo per osservare meglio la casa. Il lampo era il riflesso del sole sulle lenti.
Chi erano?, si chiese. Perché lo spiavano? La faccenda durava già da un po’ di tempo, ma stranamente si erano limitati a tenerlo d’occhio. Nessuno gli si era avvicinato: eppure, se avessero voluto incontrarlo, sarebbe stato facile e naturale. Se quella gente — di chiunque si trattasse — avesse voluto parlare con lui, avrebbe potuto approfittare del più informale degli incontri, durante una delle sue passeggiate mattutine.
Invece, a quanto sembrava, non avevano intenzione di parlare.
Ma allora cosa volevano fare? Forse non perderlo di vista. In tal caso, si disse con una punta di umorismo acido, sarebbero bastati dieci giorni a imprimergli nella memoria le sue abitudini.
O forse aspettavano l’incidente che fornisse loro la chiave delle sue attività. Se le cose stavano così, li aspettava una grossa delusione: mille anni non sarebbero bastati a scoprirlo.
Si rimise in cammino, allontanandosi dal punto panoramico e preoccupato per la presenza degli osservatori.
Forse, pensò, temevano di avvicinarlo per colpa delle storie che circolavano sul suo conto; storie che nessuno, neanche Winslowe, avrebbe osato riferirgli. Che specie di voci, si chiese, potevano aver inventato i vicini? Favole paurose da raccontarsi davanti al camino, col fiato sospeso?
Forse era meglio che lui non le conoscesse, anche se era praticamente certo che ce ne fossero; ed era anche meglio che chi lo spiava non cercasse di avvicinarlo. Fin quando restava solo, Enoch si sentiva al sicuro. Finché non c’erano domande, non c’era bisogno di risposte.
"Lei" avrebbero chiesto "è lo stesso Enoch Wallace che nel 1861 andò a combattere per Abe Lincoln?" Domanda alla quale non avrebbe potuto che rispondere: "Sì, sono lo stesso".
Del resto, tra le tante cose che avrebbero voluto sapere quella era l’unica alla quale avrebbe potuto rispondere con sincerità. Alle altre non avrebbe risposto o lo avrebbe fatto evasivamente.
Gli avrebbero chiesto come mai non fosse invecchiato, cosa impossibile per il resto dell’umanità, ed Enoch non avrebbe potuto raccontare che all’interno della stazione non si invecchia mai, che per lui il tempo passava solo quando usciva e che dunque invecchiava di appena un’ora al giorno durante le passeggiate, di un’altra ora quando lavorava in giardino e forse di una quindicina di minuti quando se ne stava seduto sui gradini del portico a guardare un bel tramonto. Del resto, bastava tornare all’interno della stazione perché il processo d’invecchiamento venisse annullato.
Non avrebbe potuto raccontarlo, e c’erano molte cose che non avrebbe mai detto. Sarebbe venuto il momento, se si fossero messi in contatto con lui, in cui avrebbe dovuto eludere ogni domanda e tagliare completamente i contatti col mondo esterno, isolandosi tra le pareti della stazione.
In tal caso non ne avrebbe sofferto fisicamente, perché lì si poteva vivere senza il minimo inconveniente. Non avrebbe avuto bisogno di nulla: i viaggiatori spaziali gli avrebbero fornito tutto quello che sarebbe stato necessario per vivere comodamente. Più volte Enoch aveva comprato cibo terrestre e incaricato Winslowe di fare la spesa in città, ma solo perché desiderava i sapori del suo pianeta, in particolare quelli semplici della sua infanzia o dei giorni della guerra. Del resto, anche senza il postino avrebbe potuto averne sempre a disposizione: sarebbe bastato mandare una dozzina di uova, o un pezzo di pancetta, in una stazione spaziale dove ne ricavassero la matrice, e chiedere di inviargliele sotto forma di impulsi, quando ne avesse avuto bisogno.
Ma c’era una cosa che gli extraterrestri non potevano dargli: i contatti umani che Enoch manteneva attraverso Winslowe e la posta. Una volta chiuso nella stazione, sarebbe rimasto per sempre tagliato fuori dal suo mondo. Giornali e riviste rappresentavano l’unico collegamento con l’esterno; quanto alla radio, il suo uso nella stazione sarebbe stato impossibile, perché le interferenze degli altri macchinari ne avrebbero impedito il funzionamento.
Non avrebbe più saputo cosa accadesse nel mondo, sarebbe rimasto senza notizie dall’esterno. Il suo diagramma ne avrebbe sofferto e sarebbe diventato in gran parte inutile; ma forse era già inutile adesso, visto che non aveva la possibilità di controllare l’uso appropriato dei fattori.
A parte questo, gli sarebbe mancato il piccolo regno che aveva imparato a conoscere così bene, l’angolo di mondo racchiuso nel limite della sua passeggiata quotidiana. Erano le passeggiate, più di ogni altra cosa, ad avergli permesso di restare un essere umano, un cittadino della Terra.
Enoch si chiese perché gli sembrasse così importante rimanere, dal punto di vista affettivo e intellettuale, cittadino della Terra e membro della razza umana. Non esisteva ragione apparente, forse era addirittura una sciocchezza: paragonata al cosmopolitismo della galassia, la sua preoccupazione di non perdere le caratteristiche del pianeta su cui era nato aveva un non so che di provinciale. E in un certo senso gli toglieva qualcosa.
Ma sapeva che non avrebbe mai voltato la schiena alla Terra, era più forte di lui. La amava profondamente, forse più degli uomini che non avevano mai avuto contatti con mondi lontani e sconosciuti. "L’uomo" pensò Enoch "deve appartenere a qualcosa, provare lealtà, riconoscersi in una propria identità; la galassia è troppo vasta per una creatura sola."
Un’allodola saettò da un ciuffo d’erba verso il cielo, ed Enoch restò in attesa del trillo che si spandesse nel cielo. Ma non era primavera e l’allodola non cantò.
Lui riprese il cammino e finalmente vide la sagoma nuda della stazione che si ergeva in cima al costone. Strano che la chiamasse stazione invece di casa, ma la sua funzione era stata per moltissimi anni quella del posto di transito, non più di una casa. Aveva una sua robusta bruttezza, come se fosse saldamente abbarbicata alla sommità della collina, e l’intenzione di rimanervi per sempre.
E per sempre sarebbe rimasta, se ce ne fosse stato bisogno, perché niente poteva cambiarla.
Anche se un giorno fosse stato costretto a rinchiudersi fra le sue mura, la stazione avrebbe resistito alla curiosità e allo spionaggio di tutta la razza umana. Nessuno poteva scalfirla, nessuno poteva danneggiarla o distruggerla. Non avrebbero potuto fare nulla. Con tutto il suo osservare, spiare e indagare l’uomo avrebbe potuto concludere nient’altro che questo: su quel particolare sperone di roccia sorgeva un edificio molto insolito. Perché la stazione era in grado di sopravvivere a tutto meno che a un’esplosione termonucleare, e forse persino a quella.