Enoch entrò nell’aia e si volse ancora una volta a guardare il boschetto in cui era balenato il lampo della lente, ma adesso niente indicava la minima traccia di presenza umana.
10
All’interno della stazione, la macchina mandò un sibilo lamentoso.
Enoch riappese il fucile, posò la posta e la statuetta sulla scrivania e si avvicinò all’apparecchio. Premette il bottone, spinse la leva e il sibilo cessò.
Sulla lastra apparve il seguente messaggio:
DA N. 406302 A STAZIONE 18321. ARRIVERÒ PRIME ORE SERA, TEMPO LOCALE. TIENI PRONTO CAFFÈ CALDO. ULISSE.
Enoch sorrise. Ulisse e il suo caffè! Era l’unico visitatore che avesse mostrato di apprezzare cibi o bevande terrestri. Altre li avevano assaggiati, ma non più di una o due volte.
Ulisse era uno strano tipo. Lui ed Enoch erano andati d’accordo fin dal primo momento, fin dal pomeriggio tempestoso in cui s’erano seduti sui gradini del portico e la maschera di fattezze umane era caduta dal volto del nuovo venuto.
Era un volto orribile, repulsivo e senza grazia. Quello di un crudele pagliaccio, si era detto Enoch, e subito il paragone gli era sembrato strano, perché i pagliacci non sono crudeli. Eppure eccone uno: i colori strani della faccia rappezzata, la mascella dura e prominente, la bocca sottile come una ferita…
Poi aveva notato gli occhi e la prima impressione era stata cancellata. Erano occhi grandi, dolci e pieni di una luce di comprensione che equivaleva a una sincera offerta di amicizia. Occhi che lo cercavano.
La pioggia aveva improvvisamente incominciato a sferzare la terra, picchiettando sul tetto e rovesciandosi improvvisa su di loro. Martellava rabbiosa la polvere dell’aia e le galline, stupite e spaventate, scappavano al coperto.
Enoch era balzato in piedi e aveva afferrato l’altro per un braccio, per tirarlo con sé al riparo del portico.
Là, in piedi uno di fronte all’altro, Ulisse aveva finito di togliersi la maschera, rivelando il volto dipinto e la testa appuntita, senza un capello. Un volto da indiano selvaggio e violento dipinto con i colori di guerra: ma qua e là vi erano i tocchi da pagliaccio, come se il lavoro di pittura fosse stato fatto per mettere in evidenza la grottesca assurdità di ogni guerra. Poi, guardando meglio, Enoch si era accorto che non si trattava di trucco, ma del colorito naturale di un essere non di questa Terra.
Perché, a parte ogni altro dubbio o interrogativo, lo straordinario visitatore non era umano. Dell’uomo aveva l’aspetto a due gambe, due braccia, una testa e una faccia, ma da lui emanava un che di estraneo, quasi la negazione dell’umanità.
In altri tempi avrebbe potuto far pensare a un demone, ma quei tempi erano ormai passati (anche se ne. restava traccia in qualche angolo del paese) e nessuno credeva più ai demoni, agli spiriti o alle orribili creature che, nell’immaginazione dell’uomo, avevano infestato la Terra.
Aveva detto di venire dalle stelle e probabilmente era vero, anche se non spiegava niente. Nessuna fantasia avrebbe potuto inventare un personaggio simile, neanche la più accesa. Non c’era niente cui aggrapparsi, niente a cui tenersi. Sfuggiva al metro comune, alle regole accettate, apriva un vuoto nella mente che sarebbe stato possibile colmare solo col passar del tempo, ma che, per il momento, restava un tunnel lanciato nell’ignoto.
— Prendi tempo — disse lo sconosciuto. — So che non è facile e non posso fare nulla per aiutarti. Non posso provare in nessun modo che vengo dalle stelle.
— Ma parli così bene…
— La tua lingua, vuoi dire? Non è stato difficile. Se sapessi quante lingue ci sono nella galassia… La tua non è affatto difficile; è semplice e solida, ma non può esprimere tutti i concetti. Magari non ne ha bisogno.
Enoch ammise che poteva esser vero.
— Se vuoi posso andarmene e tornare fra un paio di giorni — propose l’alieno. — Così avrai tempo di pensarci.
Enoch sorrise, con uno sforzo, e sentì che l’effetto non era naturale.
— Avrei anche il tempo di dare l’allarme — ribatté Enoch — e al tuo ritorno potresti trovarti in trappola.
L’altro scosse la testa. — Sono sicuro che non lo faresti, perciò sono disposto a rischiare. Quindi, se vuoi che…
— No — l’interruppe Enoch con una calma che stupì lui stesso. — No. Quando si deve affrontare una cosa è meglio farlo subito. L’ho imparato in guerra.
— Tu andrai bene. Andrai benissimo — disse l’alieno. — E sono fiero di non averti mal giudicato.
— Come, giudicato?
— Non credererai che sia arrivato qui per caso, eh? So tutto di te, Enoch, forse più di quanto ne sappia tu stesso.
— Quindi conosci il mio nome.
— Naturalmente.
— Be’, meglio così — continuò Enoch. — Qual è il tuo?
— Questa domanda mi mette in imbarazzo — confessò lo sconosciuto. — Non ho nome. Naturalmente possiedo un mezzo di identificazione, come avviene fra la mia gente, ma non può essere detto a parole.
Allora, inspiegabilmente, Enoch ricordò lo strano uomo alto e magro che, con un coltello in una mano e un bastoncino nell’altra, spenzolato sul bordo di una trincea, affilava placidamente il fuscello mentre le cannonate rombavano sopra la sua testa e i moschetti crepitavano nel polverone sollevato dalla battaglia.
— Quand’è così devo trovarti un nome adatto. Ti chiamerò Ulisse, devo pur rivolgermi a te in qualche modo.
— Mi pare bello — disse lo straniero. — Ma perché l’hai scelto?
— Perché — rispose Enoch — è il nome di un grande della mia razza.
Certo era stata un’idea assurda: non c’era la minima somiglianza fra il dinoccolato generale dell’Unione che tagliuzzava, placido, ramoscelli in trincea e l’essere che gli stava davanti, sotto il portico.
— Sono contento del mio nome — disse il novello Ulisse, immobile dov’era. — Alle mie orecchie suona nobile e dignitoso, e, sia detto fra noi, sono fiero di portarlo. Io ti chiamerò familiarmente Enoch, lavoreremo insieme per molti dei vostri anni.
Ormai Enoch cominciava a vederci chiaro ed era una prospettiva stupefacente. Forse, pensò, era meglio che ci fosse voluto un po’ di tempo, che non avesse capito tutto e subito in un singolo istante.
— Magari — disse per temporeggiare, per respingere la rivelazione che precipitava su di lui troppo in fretta — potrei offrirti qualcosa da mangiare. O un caffè.
— Caffè? — ripeté Ulisse facendo schioccare le labbra sottili. — Ne hai?
— Certo, ne farò un bricco grande. E potrei friggere un uovo, se ti va.
— Delizioso — rispose Ulisse. — Di tutte le bevande assaggiate nei pianeti che ho visitato, il caffè è la migliore.
Entrarono in cucina, dove Enoch attizzò il carbone e mise nuova legna sul fuoco. Riempì d’acqua la caffettiera, attingendo al secchio, e la mise a bollire; quindi prese le uova dalla dispensa e scese in cantina per procurare il prosciutto.
Ulisse rimase a sedere rigido, guardandolo.
— Ti piacciono le uova al prosciutto? — chiese Enoch.
— Mangio di tutto — rispose Ulisse. — La mia è una razza molto adattabile. Per questo sono stato inviato sul tuo pianeta in qualità di… come lo chiamate, voi? Osservante, direi.
— Osservatore — corresse Enoch.
— Proprio così, osservatore.