— In realtà avresti potuto dire ben poco — obiettò David. — Voglio dire che anche la tua conoscenza è limitata. Quasi tutta la scienza galattica è al di là della strada che l’uomo batte attualmente.
— Appunto — ammise Enoch. — Prendiamo, per esempio, l’ingegneria mentale di Mankalinen III. Se fosse conosciuta sulla Terra, si potrebbero guarire tutte le malattie nervose. I manicomi si vuoterebbero e potrebbero servire ad altri scopi. Non ce ne sarebbe più bisogno. Ma solo gli abitanti di Mankalinen III potrebbero spiegarci come applicare la loro scienza; io so soltanto che esiste, punto. Loro dovrebbero insegnarci tutto il resto.
— Quello che vuoi dire — concluse Mary — è che nella galassia esistono innumerevoli scienze senza nome, almeno per l’umanità. Discipline alle quali non abbiamo mai pensato.
— Come quella che riguarda noi due, per esempio — fece l’ufficiale.
— David! — gridò Mary.
— È inutile fingere che siamo persone — ribatté l’altro, bruscamente.
— Per me lo siete — intervenne Enoch. — Siete i miei più cari amici, tutto quello che mi rimane. Che ti prende, David?
— Credo sia venuto il momento di ammettere cosa siamo in realtà: illusioni. Siamo stati creati ed esistiamo solo per uno scopo: venire qui a parlare con te, sostituire i veri amici che non hai.
— Mary! — esclamò Enoch. — Non dirmi che anche tu la pensi così. Non puoi.
Tese le braccia verso di lei ma le lasciò cadere, terrorizzato al pensiero di quello che stava per fare. Era la prima volta che aveva cercato di toccarla.
— Scusami, Mary, non avrei dovuto farlo.
Lei aveva gli occhi lucidi di pianto.
— Vorrei che potessi, invece — mormorò. — Oh, quanto lo vorrei.
— David! — chiamò Enoch senza voltarsi.
— David se n’è andato — rispose Mary.
— Non tornerà — mormorò Enoch.
Mary scosse la testa.
— Che cos’è successo, Mary? Cosa ho fatto?
— Niente — rispose lei. — Solo che ci hai fatto troppo simili a persone vere. Siamo diventati sempre più umani, sempre di più. Non siamo marionette, bambole senza vita, ma persone. Credo che David sia seccato di questo… non di essere ormai una persona, ma di non poterlo essere fino in fondo. Quando eravamo semplici bambole non ci facevamo caso, perché non avevamo sentimenti maturi.
— Mary, ti prego — disse lui. — Per favore, perdonami.
Sporgendosi verso di lui, col viso illuminato da una profonda tenerezza, Mary disse: — Non ho niente da perdonarti, anzi credo che dovremmo ringraziarti. Sei tu che ci hai creato col tuo amore e il tuo bisogno di noi, ed è meraviglioso sapere di essere amati e necessari.
— Ma non sono più io a crearvi — protestò Enoch. — È tanto tempo che non lo faccio. Adesso venite a trovarmi spontaneamente, di vostra volontà…
"Da quanti anni?" si chiese Enoch. Da almeno cinquanta. Mary era stata la prima, David era venuto poi. Di tutti i personaggi che erano seguiti, Mary e David restavano i primi, i più intimi e cari.
Ma prima di tentare aveva passato anni e anni a studiare la scienza senza nome creata dai taumaturghi di Alphard XXII.
Un tempo sarebbe stata giudicata magia nera, ma non lo era. Piuttosto, si trattava dell’elaborazione di alcuni aspetti naturali dell’universo, anche se la razza umana non ne sospettava l’esistenza e forse non li avrebbe mai scoperti. Per il momento la mentalità scientifica dell’uomo non era orientata verso quel genere di ricerche, e senza ricerche non si arriva a niente.
— David — proseguì Mary — ha intuito che non possiamo continuare così per sempre, limitandoci alle nostre garbate visite di cortesia. È venuto il momento di guardare in faccia quello che siamo veramente.
— E gli altri? — domandò Enoch.
— Mi spiace, Enoch, ma la pensano tutti allo stesso modo.
— Ma tu? Come la pensi tu, Mary?
— Non lo so — disse lei. — Per me è diverso, perché ti voglio bene.
— Anch’io.
— No, non è questo che voglio dire. Non capisci? Sono innamorata di te.
Enoch la fissò, inebetito. Gli parve che il mondo esterno fosse scosso da un rombo di tuono, che il tempo e la vita corressero velocissimi mentre lui restava immobile.
— Se le cose fossero rimaste com’erano in principio! — esclamò lei. — Eravamo contenti di esistere e i nostri sentimenti erano così rudimentali che ci pareva di esser felici come un bambino che corre al sole. Ma siamo cresciuti, e io forse più degli altri.
Gli sorrise, con gli occhi pieni di lacrime.
— Non prendertela tanto, Enoch.
— Cara — confessò lui — mi sono innamorato di te fin dalla prima volta che ti ho vista… forse anche prima. — Allungò una mano per toccarla, ma subito la ritrasse.
— Non sapevo… forse ho fatto male a parlarti così — disse Mary. — Se non ti avessi detto che anch’io ti amavo, avresti potuto sopportare tutto questo.
Enoch annuì, affranto.
— Dio, non meritavamo una cosa simile — esclamò Mary chinando la testa. — Non abbiamo fatto niente per meritarcelo.
Poi sollevò lo sguardo: — Se potessi almeno toccarti.
— Potremmo continuare come prima — propose lui. — Potresti venire sempre a trovarmi. E poi…
— Non servirebbe — l’interruppe Mary, scuotendo la testa. — Non riusciremmo a sopportarlo più.
Enoch sapeva che aveva ragione. Sapeva che ormai tutto era finito. Per cinquant’anni gli amici erano venuti a tenergli compagnia, ma ora non sarebbero più tornati. L’incantesimo si era rotto e il regno della fantasia era andato in frantumi. E lui sarebbe rimasto più solo che mai, più di quanto fosse quando non la conosceva.
Mary non sarebbe tornata e lui non avrebbe più avuto la forza di evocarla, ammesso che fosse possibile. Il suo amore immaginario, il suo mondo immaginario, l’unico mondo e l’unico amore che avesse mai avuto, se n’erano andati per sempre.
— Addio, cara — le disse.
Ma era tardi. Mary era già scomparsa. Da una gran distanza, gli parve di sentire il sibilo lamentoso che indicava l’arrivo di un messaggio.
13
Mary aveva detto che bisognava affrontare la realtà di quello che erano.
Ma cos’erano, in effetti, a prescindere da ciò che ne pensava Enoch? Cosa credevano di essere? Forse lo sapevano meglio di lui.
Dov’era andata Mary? Quando era uscita dalla stanza, in che limbo era scomparsa? Esisteva ancora? E, in tal caso, di che genere di esistenza si trattava? Era conservata in qualche posto, come la bambola che una bambina mette in scatola dopo aver finito di giocare?
Cercò di raffigurarsi un posto simile, ma era il nulla. Se le cose stavano così, un essere caduto nel limbo avrebbe avuto un’esistenza subordinata alla non-esistenza. Non ci sarebbe stato niente: né spazio né tempo, né luce né aria, né colori né immagini; solo il nulla infinito che di necessità deve trovarsi oltre l’universo.
"Mary!" pianse in fondo al cuore. "Mary, che cosa ti ho fatto?"
La risposta era davanti a lui, dura e vuota.
Aveva giocato con cose che non capiva. Peggio ancora, aveva commesso il grave errore di pensare che le capisse. Era riuscito a mettere in atto i principi, senza saperne abbastanza per prevedere le conseguenze.
Alla creazione segue la responsabilità; Enoch non era stato all’altezza di assumersi l’onere morale del male che aveva fatto. Ma la responsabilità, quando non comporti la capacità di alleviare gli errori commessi, è perfettamente inutile.
Quegli esseri lo odiavano, lo biasimavano, e a ragione: li aveva tratti dall’ombra e aveva mostrato loro la terra promessa dell’umanità, senza essere in grado di portarceli. Aveva dato loro tutto ciò che possiede un essere umano, tranne una cosa, la più importante: la capacità di vivere in mezzo agli uomini.