Tutti lo odiavano tranne Mary, e per lei era ancora peggio. Grazie all’umanità che le aveva dato, era condannata ad amare il mostro che l’aveva creata.
"Odiami, Mary" la supplicò. "Odiami come gli altri!"
Li aveva chiamati ombre, ma solo perché aveva bisogno di dar loro un nome, una pratica etichetta che li identificasse. Tuttavia l’etichetta era sbagliata, perché non erano fantasmi né creature inconsistenti. A guardarli, sembravano solidi e reali come la gente vera. Solo quando si cercava di toccarli ci si accorgeva che non erano come gli altri, perché erano fatti di vuoto.
Un parto del suo cervello, aveva pensato in un primo momento. Venivano solo quando li chiamava, applicando le conoscenze e la tecnica che aveva imparato studiando il lavoro dei taumaturghi di Alphard XXII. Ma negli ultimi anni non c’era stato bisogno di chiamarli; gli amici prevenivano il suo desiderio. Sentivano quando aveva bisogno di loro prima che se ne rendesse conto. E venivano a passare un’ora con lui.
In un certo senso poteva considerarle ancora creazioni della sua mente: sia pur inconsciamente aveva dato loro un certo aspetto, senza chiedersene il perché. Ma negli ultimi anni l’aveva capito, anche se poi aveva cercato di tenersi alla larga da pensieri che era meglio non lasciar affiorare, e che anzi aveva represso, spingendo la verità in fondo alla mente. Ora che tutto era finito, ora che nulla più importava, poteva finalmente ammetterlo.
David Ransome era un ritratto di se stesso come aveva sognato di essere e non era mai stato: un coraggioso ufficiale dell’Unione, di grado non abbastanza elevato per essere pomposo e solenne, ma ben superiore al soldato qualunque. Era distinto, alla mano e decisamente audace; amato dalle donne, ammirato dagli uomini. Era un comandante nato e contemporaneamente un buon compagno, perfettamente a suo agio in un salotto elegante e sul campo di battaglia.
E Mary? Strano che non l’avesse chiamata mai in altro modo. Non le aveva dato un cognome, per lui era rimasta semplicemente Mary.
Mary racchiudeva in sé due donne. Una era Sally Brown che abitava in fondo alla strada… Da quanto tempo, si chiese Enoch, non pensava più a Sally Brown? E lo strano era che, pur non ricordandosi di lei da tanto, il pensiero della ragazza che una volta aveva conosciuto lo turbasse ancora. A quell’epoca si erano amati, o forse avevano creduto di essersi amati. Nemmeno negli anni immediatamente successivi, quando ancora la ricordava, era stato certo che fosse amore vero piuttosto che le romanticherie di un soldato in partenza per la guerra. Era stato un amore timido e goffo, inesperto: il sentimento della figlia di un contadino per il figlio di un altro contadino. Avevano deciso di sposarsi a guerra finita, ma pochi giorni dopo Gettysburg lui aveva ricevuto una lettera, scritta tre settimane prima, in cui gli comunicavano che Sally era morta di difterite. Ricordò di averne sofferto, ma non avrebbe saputo dire quanto; anche se doveva essere stato un grande dolore perché era di moda, a quei tempi, soffrire a lungo e profondamente.
Dunque Mary era in parte Sally Brown. Ma era anche l’alta, statuaria figlia del Sud, la donna che aveva visto solo per pochi istanti mentre marciava lungo una strada piena di polvere, sotto il caldo sole della Virginia. Un po’ arretrata rispetto alla strada sorgeva una villa — una di quelle grandi residenze comuni nelle piantagioni — e la donna stava in piedi sotto il portico, accanto a un grosso pilastro, guardando passare il nemico. Aveva i capelli neri e la carnagione più bianca del pilastro. E aveva un aspetto tanto fiero, provocante e imperioso, che Enoch ne era rimasto colpito. L’aveva sognata, benché non sapesse neppure il suo nome, per tutti quei sanguinosi anni di guerra. Quando pensava o sognava di lei si chiedeva se, in tal modo, fosse infedele a Sally. Seduto davanti al fuoco del campo, quando le conversazioni languivano e lui se ne stava avvolto nella coperta a fissare le stelle, immaginava il giorno in cui, a guerra finita, sarebbe tornato nella casa della Virginia e l’avrebbe ritrovata. Forse lei non viveva là, ma l’avrebbe trovata comunque. E invece non lo aveva mai fatto, in fondo non ne aveva avuto l’intenzione. Era stato solo un sogno.
Mary, quindi, era contemporaneamente Sally e la sconosciuta bellezza della Virginia che stava sotto il portico a guardare passare i soldati. Era stata l’immagine di due donne e forse di molte altre: un insieme di tutto ciò che lui aveva visto, conosciuto e ammirato nella donna. Era stata la ragazza perfetta, creata dalla sua mente. E adesso riposava nella tomba, come Sally Brown, come la bella della Virginia e come tutte le altre. Non esisteva più.
Enoch era stato sicuro di amarla perché rappresentava la quintessenza dei suoi amori: la sezione incrociata, per così dire, di tutte le donne cui aveva voluto bene, ammesso che avesse voluto bene a qualcuna. Persino di quelle che aveva creduto di amare nel pensiero.
Ma non avrebbe immaginato che lei potesse ricambiarlo. Fino al momento in cui aveva scoperto di essere riamato, era riuscito a nascondere in petto l’amore per Mary, sapendo che era un sentimento impossibile e il meglio che potesse permettersi.
Si domandò dove lei fosse, in che luogo si fosse ritirata: nel limbo che aveva immaginato prima o in uno strano mondo della non-esistenza, aspettando senza sapere il momento in cui sarebbe tornata da lui?
Con la faccia nascosta fra le mani, Enoch si sentì infelice e colpevole.
Mary non sarebbe più tornata perché l’aveva pregata di non tornare. Era meglio così per tutti e due.
Ma avrebbe voluto sapere dove si trovava, esser certo che giaceva come morta, non tormentata dai suoi pensieri. Sapere che conservava intatta la coscienza era una cosa insopportabile.
Il sibilo della macchina che annunciava un messaggio in arrivo riprese. Enoch scostò le mani dalla faccia ma non si alzò.
Ancora stordito, allungò una mano verso il tavolino da caffè che stava a fianco del divano e prese un cubo di una sostanza trasparente che sembrava vetro o cristallo (non era mai riuscito a capire quale dei due, ammesso che non fosse un’altra sostanza ancora). Tenendolo fra le mani, vi guardò dentro. Vide l’immagine nitida e minuta, a tre dimensioni, di un mondo fantastico. Era un luogo grottesco: un prato cosparso di funghi, circondato da alti alberi su cui scendeva una nevicata di gemme che sembravano far parte dell’aria stessa, e scintillavano ai raggi violacei di un gran sole azzurro. Sul prato danzavano, con una grazia che colpiva profondamente, delle creature più simili a fiori che ad animali. Poi il paesaggio fantastico sparì e fu sostituito da un altro, selvaggio e sinistro, con aspre e cupe montagne che si stagliavano sullo sfondo di un cielo rosso e violento in cui volavano orribili creature simili a stracci alati. Le creature scalavano le cime delle montagne o si tuffavano a precipizio nel vuoto, mentre altre stavano appollaiate in maniera ripugnante sui rami degli alberi che nascevano fra le rupi. Lontano, a una distanza che si riusciva a malapena a immaginare, si sentiva il rombo di un fiume impetuoso.
Enoch posò il cubo sul tavolo, domandandosi da dove venissero le immagini. Era come voltare le pagine di un libro illustrato in cui fossero raffigurati paesaggi diversi, ma che ignorava dove si trovassero. Quando glielo avevano regalato aveva passato ore intere a guardare, incantato, le scene che si svolgevano sotto i suoi occhi. E tutte erano diverse, nessuna somigliava a quelle già apparse. Osservandole, Enoch aveva la sensazione che non fossero soltanto immagini, ma scene dal vero, e che se si fosse sporto un po’ di più avrebbe perso l’equilibrio e sarebbe precipitato anche lui in uno di quei luoghi misteriosi.
Poi si era stancato dell’aggeggio inutile che raffigurava posti sconosciuti e che per lui non avevano alcun senso. Naturalmente, la mancanza di significato era del tutto soggettiva: per il nativo di Enif V che gliel’aveva regalato doveva rappresentare un tesoro o qualcosa di simile.