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Così era per molti dei regali che aveva ricevuto. Anche quelli che gli erano piaciuti di più servivano probabilmente a un uso diverso da quello a cui li aveva destinati, oppure li adoperava male.

Di alcuni (pochi, purtroppo) riusciva a capire e apprezzare il valore anche se non gli erano molto utili: c’era l’orologio che segnava il tempo locale in tutti i settori della galassia, e che, per quanto prezioso e complesso, a lui serviva a ben poco. C’era il mescolatore di profumi, come l’aveva battezzato per approssimazione, che permetteva a chiunque di creare l’odore preferito, scelto il quale tutto il locale olezzava finché non si tornava a premere il bottone. Ripensò con divertimento alla lunga e gelida giornata d’inverno in cui, dopo molti tentativi, era riuscito a evocare il profumo dei meli e aveva vissuto una giornata di primavera mentre fuori infuriava la tempesta.

Allungò la mano per afferrare un altro dono: era un oggetto bellissimo, ma l’aveva sempre turbato perché non sapeva cosa fosse né a che cosa servisse (ammesso pure che servisse a qualcosa: Enoch non era mai riuscito a usarlo). Forse si trattava di un’opera d’arte, un bell’oggetto fatto per essere ammirato. Eppure emanava la sensazione — se l’espressione era giusta — che avesse una specifica funzione.

Era una piramide di sfere: più grandi alla base, sempre più piccole man mano che si avvicinavano al vertice. La piramide era alta una trentina di centimetri e molto bella, perché le sfere erano tutte di colore diverso. Ma i colori non sembravano dipinti: sprigionavano una tale intensità e calore che si sarebbero detti intrinseci alle sfere, e che, dal centro alla superficie, ognuna fosse interamente costituita del suo particolare colore.

Non si capiva da che cosa fossero tenute insieme, se da colla o altro; si aveva l’impressione che qualcuno le avesse ammonticchiate e che fossero rimaste così, unite una all’altra.

Enoch la guardò a lungo, cercando inutilmente di ricordare chi gliel’avesse regalata. Non lo sapeva più.

La macchina dei messaggi continuava a chiamarlo, c’era del lavoro da fare. Enoch decise che era inutile starsene lì seduto, passando il pomeriggio a rimuginare. Rimise la piramide sul tavolo, si alzò e attraversò la stanza.

Il messaggio diceva:

DA N. 406303 A STAZIONE 18327. NATIVO DI VEGA XXI ARRIVA A 16532.82 PARTENZA INDETERMINATA — NIENTE BAGAGLIO. SOLO CABINA, CONDIZIONI LOCALI. CONFERMARE.

Enoch lesse il testo e si sentì felice. Era contento di vedere uno splendente, non ne arrivavano da più di un mese.

Ricordò il giorno in cui aveva conosciuto i primi abitanti di quel pianeta: ne erano arrivati cinque. Doveva essere il 1914 o il 1915 e la la Prima guerra mondiale, che allora tutti chiamavano la Grande guerra, stava per scoppiare.

Il viaggiatore sarebbe arrivato pressappoco alla stessa ora di Ulisse e avrebbero passato una piacevole serata in tre. Non capitava spesso che venissero a trovarlo due amici contemporaneamente.

Sbigottito, constatò che aveva usato la parola "amico" quando non era affatto sicuro di conoscere lo splendente: con ogni probabilità era un individuo che non aveva mai visto prima. Ma non aveva importanza perché ogni splendente, qualunque splendente sarebbe presto diventato un amico.

Sistemò la cabina sotto una unità di materializzazione e controllò due volte per assicurarsi che tutto fosse a posto, quindi andò alla macchina per battere il messaggio di conferma.

Intanto la memoria continuava a tormentarlo. Era stato nel ’14 o più tardi?

Consultò il catalogo e, sotto l’intestazione "Vega XXI", scoprì che il primo arrivo portava la data del 12 luglio 1915. Andò a prendere il diario di quell’anno lontano e, dopo averlo sfogliato, ricominciò a leggere.

14

12 luglio 1915. Alle 15,30 sono arrivati cinque esseri da Vega XXI, i primi del genere passati da questa stazione. Sono bipedi e umanoidi e a prima vista non sembrano fatti di carne, perché la carne sarebbe troppo grossolana. Ma invece lo sono, come chiunque altro. Scintillano senza emanare luce visibile, è come se fossero circondati da una specie di alone che li accompagna sempre.

I cinque, se ho ben capito, formano un’unità sessuale, ma non ne sono sicuro perché è una questione molto complessa. Mi sono apparsi contenti, cordiali e vagamente divertiti: non di qualcosa in particolare, ma dell’universo stesso, come se avessero sentito l’equivalente di una barzelletta cosmica ignota a chiunque altro. Sono in vacanza, diretti a una festa che si svolge su un lontano pianeta, dove esseri di un’altra razza festeggiano una specie di carnevale. Non ho capito come e perché siano stati invitati anche loro, ma l’invito deve rappresentare un grande onore; essi tuttavia lo prendono per un diritto. Erano felici, spensierati e sicuri di sé, ma a pensarci bene dev’essere la loro condizione naturale. Ho provato un po’ d’invidia per quell’atteggiamento così gaio e positivo; ho cercato d’immaginare quanto debba essere bella la vita per gente simile, e piacevole l’universo. Mi sono perfino arrabbiato, di fronte a tanta felicità.

Secondo le istruzioni ricevute avevo appeso delle amache perché riposassero, ma non le hanno usate. Avevano portato con sé alcune bisacce piene di cibo e di bevande e si sono seduti al mio tavolo per parlare della festa. Mi hanno invitato a unirmi a loro e hanno scelto due piatti pieni e una bottiglia, assicurandomi che avrei potuto mangiare e bere senza pericolo; quanto al resto delle pietanze, non sembravano adatte al mio metabolismo. Il cibo era delizioso, di un genere che non avevo mai assaggiato: quello di un piatto ricordava vagamente un formaggio vecchio e delicatissimo, l’altro aveva una dolcezza paradisiaca. La bevanda, che faceva pensare al più fine dei brandy, aveva una colorazione gialla ed era leggera come acqua.

Hanno chiesto di me e del mio pianeta, dimostrandosi vivamente interessati e pronti ad accettare le mie spiegazioni, che capivano al volo. Hanno affermato di essere diretti verso un pianeta di cui non avevo mai sentito il nome e hanno parlato a lungo fra loro, con una vivacità che non mi ha fatto sentire escluso anche quando non partecipavo direttamente alla conversazione. Da quanto hanno detto, sono venuto a sapere che sul pianeta sconosciuto si sarebbe svolta una manifestazione artistica legata alla ricorrenza cui stavano per partecipare. Non si tratta di un avvenimento musicale o pittorico, ma una fusione di suoni, colori, emozioni, forme e altre qualità che non possiamo esprimere con le nostre parole, e che non ho capito fino in fondo; anzi, su questo argomento ho potuto farmi solo un’idea vaghissima basandomi su quello che dicevano. Ho avuto l’impressione che si trattasse di una sinfonia a tre dimensioni, composta non da un solo essere, ma da un’intera squadra. Parlavano della manifestazione con entusiasmo e mi è parso di capire che non sarebbe durata solo alcune ore, ma giorni, e che si trattasse di un’esperienza piuttosto complessa, non limitata al semplice ascolto ma alla quale, volendo, si poteva partecipare; solo così se ne sarebbe ricavato il massimo godimento. Non ho capito come fosse possibile, ma chiedere spiegazioni non mi è sembrato opportuno. Hanno parlato di persone che avrebbero incontrato e hanno spettegolato un po’ sul loro conto, anche se in modo benevolo, e mi hanno lasciato l’impressione che anche gli abitanti di altri pianeti viaggiassero di stella in stella, come loro, per puro divertimento.

Poi hanno parlato di altre ricorrenze, non tutte riguardanti quella forma di espressione ma altri aspetti delle arti, più specializzati e di cui non sono riuscito a farmi un’idea precisa. Pare che si divertano molto a partecipare a quei raduni, ricavandone una gioia che non deriva solo dal valore artistico. Non mi sono inserito in questa parte della conversazione perché, francamente, non ce n’è stata l’opportunità. Mi sarebbe piaciuto chiedere, ma l’occasione non si è mai presentata. Penso che se avessi fatto delle domande mi avrebbero preso per un sempliciotto, eppure questo, in confronto alla possibilità di chiedere, non mi sarebbe dispiaciuto. Nonostante tutto, mi facevano sentire come parte della conversazione. Non c’era un preciso intento da parte loro, ma riuscivano a farmi sentire uno del gruppo e non un semplice custode di stazione con cui si passa qualche ora. A volte parlavano nella lingua del loro pianeta, una delle più belle che abbia mai sentito, ma per lo più si servivano del dialetto comune a molte razze di tipo umanoide: si tratta di una lingua artificiale creata per convenienza, e credo lo facessero per riguardo a me. Era davvero una gran cortesia, penso che siano la razza più civile che abbia mai incontrato.