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Ho detto che risplendevano e credo di aver voluto dire che si trattava di uno splendore dello spirito. Sembravano avvolti in uno scintillio dorato, un alone luminoso che rendeva lieto tutto quello che sfiorava; si muovevano in un mondo che nessun altro aveva scoperto. Seduto al tavolo in loro compagnia, mi pareva di essere circondato a mia volta dalla nebbia dorata e sentivo placide, profonde correnti di una contentezza straordinaria scorrermi nelle vene. Mi sarebbe piaciuto sapere in che modo fossero arrivati a quello stato aureo e se l’umanità, in futuro, avrebbe potuto raggiungerlo.

Dietro tanta gioia c’era una grande vitalità: uno spirito vivo ed effervescente con un nocciolo di forza e amore per la vita che riempiva ogni poro, ogni attimo del tempo di quella gente.

Avevano solo due ore a disposizione e il tempo è passato così in fretta che ho dovuto avvertirli quando è stato il momento di andarsene. Prima di partire mi hanno dato due pacchi dicendo che erano per me, quindi mi hanno ringraziato per il mio tavolo (strano modo di esprimersi!) e si sono preparati. Hanno preso posto nella cabina (la più grande) e li ho mandati per la loro strada. Anche dopo la partenza mi è sembrato che la nebbiolina d’oro continuasse ad aleggiare nella stanza; sono passate ore prima che scomparisse del tutto. Vorrei essere andato con loro, aver potuto partecipare alla festa del pianeta sconosciuto.

Uno dei pacchi conteneva una decina di bottiglie del liquore simile a brandy e ognuna era di per sé un’opera d’arte: tutte una diversa dall’altra e ricavate da una sostanza che mi è sembrata diamante, non so se artificiale o ottenuta da pietre enormi. Sono certo che abbiano un valore inestimabile e vi sono incisi simboli strani ma bellissimi. Nell’altro pacco c’era una… in mancanza di definizioni più appropriate la chiamerò scatola musicale. La scatola in sé è di avorio antico, ingiallito e liscio come satin, ed è coperta da incisioni o diagrammi di cui ignoro il significato. Sulla parte superiore c’è un cerchio con una scala graduata, e quando ho girato il cerchio in corrispondenza del primo grado si è sentita una musica, mentre la stanza era pervasa da un gioco di luci che la facevano sembrare piena di colori. E in mezzo ai colori aleggiava un vago accenno dell’alone dorato. La scatola emanava profumi che riempivano l’ambiente, e insieme ai profumi emozioni, sentimenti (non so come altro chiamarli) che s’impossessavano di me, facendomi sentire triste o contento a seconda dei diversi tipi di musica, colore e odore. La scatola racchiude un mondo in cui si rivive l’opera d’arte, se poi si tratta di un’opera d’arte in senso umano. Permette di riviverla con tutto se stessi, emozioni, intelletto e convinzioni. Penso che sia una registrazione dello spettacolo di cui gli splendenti parlavano a tavola, e la scatola ne contiene ben 206; ognuna corrisponde a un grado della scala. Le ascolterò tutte e prenderò appunti; chissà che non riesca a ricavarne conoscenza, oltre che diletto.

15

Le dodici bottiglie di diamante, ormai vuote da tempo, scintillavano in fila sulla mensola del camino. La scatola musicale, uno dei suoi più gelosi tesori, era chiusa in un armadio, al sicuro. Ogni tanto Enoch pensava, con rammarico, che in tanti anni non era ancora riuscito a suonare tutte le composizioni. Le prime erano tanto belle che provava il desiderio di riprodurle in continuazione, e così non era arrivato nemmeno a metà.

I cinque splendenti erano tornati molte volte perché nella stazione, e forse nel guardiano, c’era una qualità che amavano. Avevano aiutato Enoch a imparare la lingua di Vega, gli avevano portato esemplari di letteratura vegana e molte altre cose. Erano diventati buoni amici, i migliori che avesse tra gli alieni (insieme a Ulisse). Poi avevano smesso di venire; Enoch si era domandato perché, ma pur avendo chiesto notizie ad altri splendenti di passaggio, non era riuscito a sapere cosa fosse successo.

Oggi conosceva molte più cose sul conto degli splendenti di quel lontano giorno del 1915, quando aveva scritto le annotazioni sul diario. Conosceva le loro forme d’arte, le tradizioni, le abitudini e la storia; ma ancora non riusciva ad afferrare molti dei concetti che per loro erano elementari.

Dal 1915 molti splendenti erano passati dalla stazione, ma Enoch ne ricordava uno in modo particolare: il vecchio saggio, il filosofo che era morto lì, sul pavimento vicino al divano.

Se ne stavano seduti a chiacchierare ed Enoch ricordava benissimo l’argomento della conversazione. Il vecchio gli parlava del perverso codice etico, allo stesso tempo comico e irrazionale, di una curiosa razza di vegetali sociali che aveva incontrato su un pianeta fuori mano, al capo opposto della galassia. Il vecchio splendente aveva bevuto un paio di bicchieri: era in ottima forma e raccontava con gran brio un episodio dopo l’altro.

D’un tratto, a metà frase, aveva smesso di parlare e si era afflosciato in avanti. Stupito, Enoch aveva cercato di sorreggerlo, ma non aveva fatto in tempo perché ormai il vecchio era scivolato sul pavimento.

La nebbiolina dorata era diventata più fievole, poi era sparita e il suo corpo angoloso, ossuto, tremendamente estraneo era rimasto immobile sul pavimento. Faceva pena e ribrezzo allo stesso tempo, ma più che altro ribrezzo: Enoch non aveva mai visto nulla di così mostruoso.

Da vivo era stato una creatura meravigliosa, da morto non era che un fagotto di orribili ossa, legate una all’altra da una specie di cartapecora squamosa. Fissandolo inorridito, Enoch si rese conto che solo in virtù della nebbiolina d’oro gli splendenti sembravano così belli, vivaci e pieni di dignità. L’alone dorato era la loro vita: senza, erano creature repellenti che ci si sforzava di non guardare.

"L’aureola è la forza vitale degli splendenti?" si era domandato Enoch. La indossavano come un mantello, come un travestimento? Mentre le altre creature possedevano una forza vitale interna, gli splendenti ne erano avviluppati esternamente?

Un venticello lieve s’infilava con un lamento nelle grondaie; dalla finestra si vedevano nubi sfilacciate ritirarsi, cancellando a tratti la luna che saliva da oriente.

Sulla stazione gravava un senso di freddo e di abbandono, una strana solitudine più grande e terribile della solitudine terrestre.

Enoch aveva abbandonato il cadavere e si era diretto con passo rigido verso la macchina dei messaggi. Dopo essersi messo in contatto diretto con la Centrale Galattica, aveva aspettato la risposta con le mani contratte sull’angolo della macchina.

AVANTI, aveva trasmesso la Centrale.

Con la maggior brevità e chiarezza possibili, Enoch aveva riferito l’accaduto.

Dall’altra parte non vi erano state esitazioni né domande, solo istruzioni: come se fosse una cosa di ordinaria amministrazione. Il corpo del vegano avrebbe dovuto restare sul pianeta dov’era morto e ricevere il trattamento che la Terra riservava ai morti. Questa era la legge vegana, e del resto un punto d’onore. Quando uno di loro moriva, doveva restare dov’era finito: quel luogo sarebbe diventato in eterno una parte di Vega XXI. Esistevano posti simili in tutta la galassia, aveva informato la Centrale:

QUI SI USA SEPPELLIRE I MORTI (aveva trasmesso Enoch).