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ALLORA SEPPELLISCI IL VEGANO.

LEGGIAMO ALCUNI VERSETTI DEI NOSTRI TESTI SACRI.

LEGGILI ANCHE AL VEGANO. SEI IN GRADO DI FARLO?

CERTO. DI SOLITO SE NE OCCUPA UN FUNZIONARIO DELLA RELIGIONE, MA DATE LE CIRCOSTANZE MI PARE CHE NON SAREBBE PRUDENTE.

D’ACCORDO (aveva risposto la Centrale). PUOI PROVVEDERE DA SOLO?

SÌ.

ALLORA È MEGLIO FARLO SUBITO.

ARRIVERANNO PARENTI O AMICI PER LA CERIMONIA?

NO.

LI AVVERTIRETE VOI?

È UNA FORMALITÀ D’USO, MA SANNO GIÀ.

È MORTO SOLO DA POCHI MINUTI.

NON IMPORTA. LO SANNO.

OCCORRE UN CERTIFICATO DI MORTE?

NO. SANNO DI CHE COSA È MORTO.

E IL BAGAGLIO? AVEVA UN BAULE.

TENILO, È TUO, IN RICOMPENSA PER I SERVIZI RESI ALL’ONOREVOLE DEFUNTO. INOLTRE, È LA LEGGE.

POTREBBE CONTENERE OGGETTI IMPORTANTI.

DEVI TENERE IL BAULE. RIFIUTARE SAREBBE UN’OFFESA ALLA MEMORIA DEL DEFUNTO.

C’È ALTRO? (aveva chiesto Enoch). QUESTO È TUTTO?

TUTTO. FAI COME SE IL VEGANO FOSSE UNO DELLA TUA RAZZA.

Enoch aveva messo la macchina a zero, poi, ritto davanti al cadavere, aveva chiamato a raccolta tutto il suo coraggio, prima di decidersi a prenderlo fra le braccia e a posarlo sul divano. Gli ripugnava toccarlo. Il cadavere era orribile e repellente, una caricatura della creatura luminosa che fino a poco prima aveva parlato con lui.

Fin dal primo giorno in cui aveva conosciuto gli splendenti, li aveva amati e ammirati e aveva atteso con impazienza le loro visite: ma in quel momento aveva tremato come un vigliacco, incapace di toccare un morto.

Non era soltanto orrore: come guardiano nella stazione era abituato alle orribili forme delle creature non umane. Aveva finito col vincere la ripugnanza per i mostri che a volte doveva accogliere, con l’ignorare il loro aspetto. Li considerava esseri viventi, persone.

Ma in questo caso c’era qualcos’altro, all’orrore si era aggiunto un sentimento oscuro che gli sfuggiva. Eppure il mostruoso corpo inerte era quello di un amico e come tale esigeva onori, amore e cura.

Si era accinto al compito con uno sforzo. Chinatosi, aveva sollevato il cadavere che pesava pochissimo, come se nella morte avesse perso una parte importante di sé e fosse diventato più piccolo, meno reale. Forse mancava il peso della nebbia d’oro.

Aveva deposto il morto sul divano, sistemandolo come meglio aveva potuto, ed era uscito, con la lanterna, per andare nella rimessa.

Non ci metteva più piede da anni, ma non era cambiata. Il tetto solido aveva impedito che le intemperie facessero danni, conservandola asciutta e accogliente. Dalle travi pendevano ragnatele e la polvere era dappertutto. Sul soppalco c’erano avanzi di antichi mucchi di fieno che s’infilavano nelle fessure tra le assi, e dappertutto aleggiava un odore dolce, asciutto e polveroso cui si mescolava l’odore di animali e finimenti che non c’erano da tempo.

Dopo aver appeso la lanterna al gancio, Enoch si era arrampicato sulla scaletta che portava al soppalco. Lavorando a tentoni nel buio, perché non aveva osato portare la lanterna dove c’era tutto quel fieno essiccato, era riuscito a trovare la catasta di assi di rovere sotto le grondaie.

Al riparo della grondaia inclinata andava spesso a giocare da bambino, immaginando di trovarsi in una grotta. In questo modo passava i bei giorni di pioggia, quando non si poteva giocare fuori. Era stato Robinson Crusoe nella caverna sull’isola deserta, o un fuorilegge senza nome in fuga dagli uomini dello sceriffo, o un pioniere accerchiato dagli indiani che volevano scotennarlo. Si era fabbricato una pistola di legno, ricavata da un’asse a furia di sega e temperino, e l’aveva levigata con un pezzo di vetro. L’aveva tenuta cara per tutta l’infanzia, fino al giorno in cui suo padre, tornando dalla città, gli aveva portato un fucile. Aveva dodici anni.

Esplorando nel buio la catasta di assi, aveva scelto le migliori al tatto, poi le aveva trasportate con cautela giù per la scaletta.

Era andato nel granaio dove teneva gli utensili che da tempo non usava più. Sollevato il coperchio della cassa, aveva scoperto che era piena di nidi di topi, ormai vuoti. Togliendo a manate la paglia, il fieno e l’erba di cui i roditori si erano serviti per fabbricare il nido, aveva riportato alla luce gli utensili. Erano diventati opachi ma non arrugginiti, e quelli affilati potevano ancora servire.

Preso l’occorrente, si era messo all’opera. Un secolo prima aveva fatto lo stesso lavoro al lume di lanterna: la bara era servita per un altro morto che aspettava in casa, suo padre.

Le assi di rovere erano asciutte e dure, ma gli attrezzi erano in buono stato. Enoch aveva segato, martellato, piallato in mezzo all’odore di segatura. Il granaio era confortevole e silenzioso, e il rumore del vento era attenuato dal fieno che occupava il soppalco.

Una volta finita la cassa si era accorto che la bara era più pesante di quanto credesse, perciò aveva visto la carriola appoggiata alla parete di fondo, dietro i box dei cavalli, e ce l’aveva caricata. Aveva faticato non poco a spingerla fino al piccolo cimitero nel frutteto, tra i meli. Aveva dovuto fermarsi a riposare.

Servendosi di pala e piccone aveva scavato una fossa accanto a quella di suo padre, ma non profonda come avrebbe voluto (i due metri scarsi raccomandati dalla tradizione), perché sapeva che altrimenti non avrebbe avuto la forza di calare la bara. Si era fermato a un metro e trenta circa, lavorando alla debole luce di lanterna che irradiava da un monticello di terra. Un gufo venuto dai boschi era rimasto a lungo nascosto su un albero del frutteto, mandando di tanto in tanto le sue grida e borbottii. La luna stava per tramontare e le nuvole si erano tanto diradate da lasciar vedere le stelle.

Finalmente era finita; la tomba era pronta, la bara calata nella fossa. La lampada era agli sgoccioli, con il cherosene quasi esaurito e il tubo annerito dal fumo in diagonale, secondo l’inclinazione in cui era stata tenuta la lanterna.

Tornato alla stazione, Enoch aveva preso un lenzuolo in cui avvolgere il morto, si era infilato in tasca la Bibbia e, col vegano tra le braccia, era tornato nel frutteto quando il cielo impallidiva per l’alba imminente. Messo il corpo nella bara, ne aveva inchiodato il coperchio ed era uscito dalla fossa.

In piedi sull’orlo, aveva sfogliato la Bibbia per trovare il brano che cercava e aveva letto ad alta voce, senza dover faticare per seguire il testo nella luce debolissima: lo conosceva quasi a memoria.

Nella casa di mio Padre vi sono molte dimore; se così non fosse, ti avrei detto…

E aveva pensato quanto fossero appropriate quelle parole, quante dimore fossero necessarie per raccogliere tutte le anime della galassia e delle altre galassie che si estendevano nello spazio, forse all’infinito. Ma a patto che vi fosse comprensione tra gli esseri, una poteva bastare.

Finito di leggere aveva recitato l’ufficio funebre a memoria, per quanto non ricordasse bene tutte le parole. Comunque, bastava l’intenzione. Poi aveva riempito la fossa.

Le stelle e la luna erano scomparse e il vento era cessato. Nella gran calma del mattino, il cielo, a oriente, era di un color rosa perlaceo.

Enoch era rimasto in piedi accanto alla tomba, con la pala in mano.

— Addio, amico — aveva sussurrato.

Poi si era voltato e, mentre il cielo si colorava di rosso, era tornato alla stazione.

16

Si alzò dalla scrivania e ripose il quaderno nello scaffale.

Si guardò intorno, esitante.

Avrebbe avuto tante cose da fare: leggere i giornali, aggiornare il diario, dare un’occhiata a un paio d’articoli dell’ultimo numero del "Journal of Geophysical Research".

Ma non ne aveva voglia. Era troppo occupato a riflettere, a preoccuparsi, a rimpiangere.