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Fuori, c’erano i soliti tipi che lo sorvegliavano. Aveva perduto il suo mondo di creature fatte d’ombra. E il mondo esterno stava precipitando verso la guerra.

Ma forse non doveva preoccuparsi per le sorti della Terra; era libero di rinunciare al pianeta e all’umanità quando avesse voluto. Se non fosse uscito dalla stazione, se non avesse più aperto la porta, il mondo avrebbe potuto anche scomparire senza che lui ne risentisse. Enoch possedeva qualcosa di più grande, l’universo: nessuno aveva mai visto niente di simile, fuori della casa. Non aveva affatto bisogno della Terra.

Eppure, non riusciva a convincersene fino in fondo. Per strano e assurdo che fosse, era certo di non poter rinunciare alla Terra.

Si mise davanti alla porta e pronunciò la parola d’ordine. La porta si aprì ed Enoch entrò nel ripostiglio, mentre il battente si richiudeva alle sue spalle.

Uscì, girò l’angolo della casa e andò a sedersi sui gradini del portico.

"Tutto è cominciato qui" pensò. In un pomeriggio d’estate di tanti anni prima, mentre se ne stava seduto a pensare e le stelle avevano superato l’immenso abisso dello spazio per puntare il dito su di lui.

Il sole era basso all’orizzonte e presto sarebbe scesa la sera. Il caldo cominciava già a diminuire, vinto da una leggera brezza che saliva dal fiume. In fondo al campo, sul limitare del bosco, i corvi volavano in cerchio e gracchiavano.

Enoch sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere definitivamente la porta della stazione e a non aprirla più. Non avrebbe resistito alla mancanza del sole e del vento, alla nostalgia delle stagioni che si avvicendano sulla Terra. Sentiva che l’uomo non era in grado di aderire totalmente al mondo artificiale che aveva creato, di staccarsi completamente dall’aspetto fisico del suo pianeta natale. Per restare uomo aveva bisogno del sole, della terra e del vento.

Pensò che avrebbe dovuto uscire più spesso, stare seduto sui gradini senza far niente, guardare gli alberi, il fiume, le colline azzurre dello Iowa oltre il Missisippi, i corvi che ruotavano in cielo e i piccioni che tubavano sulla grondaia della rimessa.

Ne sarebbe valsa la pena, farlo tutti i giorni; cosa importava invecchiare di un’ora? Per il momento non aveva bisogno di economizzare il tempo; forse sarebbe venuto il giorno in cui ne sarebbe diventato geloso, e allora si sarebbe messo a contare le ore e perfino i secondi, nel modo più squallido.

Sentì un rumore di passi in corsa dietro la casa. Doveva essere un corridore stanco, perché incespicava e trascinava i piedi come se l’avesse fatta da lontano.

Enoch si alzò, precipitandosi sull’aia per vedere chi fosse, e scorse Lucy che correva verso di lui a braccia spalancate. Tese le braccia e se la strinse al petto perché non cadesse: — Lucy! Lucy! Cos’è successo, bambina?

Sentì che la mano appoggiata al dorso di lei era calda e appiccicosa e, ritraendola, vide che era sporca di sangue. La schiena di Lucy era umida e scura.

L’afferrò per le spalle, staccandola da sé per guardarla in faccia: era sconvolta dal pianto e contratta in un’espressione di terrore.

Lucy si staccò da lui e con gesti affannosi scostò l’abito per mostrare le spalle: la schiena era segnata da lunghe striature ancora sanguinanti.

Poi la ragazza si ricompose e, guardando Enoch, indicò con una mano il versante della collina che scendeva ripido verso i boschi.

Laggiù qualcuno si muoveva; qualcuno che risaliva i boschi e stava per arrivare al limite del vecchio campo abbandonato.

Anche Lucy doveva aver visto, perché si accostò tremando a lui, come a cercare protezione.

Enoch la prese in braccio e la portò nel ripostiglio. Pronunciò la parola d’ordine e la porta della stazione si aprì, mentre quella del rispostiglio si chiudeva alle loro spalle.

Appena entrato, con la ragazza ancora fra le braccia, capì di aver commesso una grossa imprudenza: aveva agito d’impulso, senza riflettere. Lucy aveva bisogno di protezione e lì, dove nessuno al mondo avrebbe potuto raggiungerla, sarebbe stata al sicuro. Ma era un essere umano e nessun essere umano, tranne lui, avrebbe dovuto attraversare la soglia.

Ormai era fatta, non si poteva tornare indietro.

Mise Lucy sul divano e lei rimase seduta a guardarlo con un sorriso timido e incerto, come se avesse paura di non poter ridere in un luogo simile. Alzò una mano per asciugarsi le lacrime che le rigavano le guance e diede un’occhiata intorno, spalancando la bocca per lo stupore.

Enoch si accoccolò davanti a lei, batté il palmo sul divano e agitò un dito, nella speranza di far capire a Lucy che non doveva muoversi. Lei lo fissò, dapprima interdetta, poi annuì per far segno che aveva capito.

Lui le prese una mano e gliela carezzò con più dolcezza che poteva, per rassicurarla e farle capire che tutto sarebbe andato bene, se non si fosse mossa da lì.

Adesso Lucy sorrideva apertamente, non più intimorita, e con la mano libera indicò il tavolo, su cui erano posati molti dei regali che Enoch aveva ricevuto dai viaggiatori di altri pianeti.

Lui fece un cenno di assenso e Lucy ne prese uno, tenendolo in mano per ammirarlo meglio.

Allora Enoch si alzò, andò a prendere il fucile e uscì per affrontare gli inseguitori della ragazza.

17

Due uomini attraversavano il campo diretti verso casa, ed Enoch vide che uno era Hank Fisher, il padre di Lucy. L’aveva incontrato una volta, anni prima, durante una passeggiata. Con un certo imbarazzo Hank aveva spiegato, anche se non sarebbe stato affatto necessario, che stava cercando una mucca scappata dalla stalla. Dai suoi modi furtivi Enoch aveva intuito che doveva trattarsi invece di un affare losco, anche se non avrebbe saputo dire quale.

L’altro uomo era più giovane, sedici o diciassette anni, e probabilmente era uno dei fratelli di Lucy.

Enoch rimase sotto il portico ad aspettarli.

Hank stringeva in pugno una frusta, certo la stessa che era servita per ferire Lucy.

Enoch si sentì avvampare dall’ira, ma si sforzò di restare calmo perché si rendeva conto che, se si fosse dominato, avrebbe potuto meglio tener fronte ad Hank Fisher.

I due uomini si fermarono a qualche passo da lui.

— Buongiorno — disse Enoch.

— Hai visto mia figlia? — chiese Hank.

— E se fosse?

— Voglio levarle la pelle di dosso! — gridò l’altro, facendo schioccare la frusta.

— Se è così, stai certo che non ti dirò niente — disse Enoch.

— L’hai nascosta da qualche parte — ritorse Hank.

— Cerca pure.

Hank fece un passo avanti, poi cambiò idea.

— Ha avuto quello che si meritava — gridò. — E non è ancora finita. Nessuno, neanche se è della mia carne e del mio sangue, può gettarmi il malocchio.

Enoch non aprì bocca e Hank restò immobile, indeciso.

— Si è messa di mezzo quando non ne aveva il diritto — spiegò Hank. — Nessun diritto.

Il ragazzo aggiunse: — Stavo solo allenando Butcher. Butcher — spiegò a Enoch — è il mio cucciolo per la caccia ai tassi.

— È vero — intervenne Hank. — Non faceva niente di male. La notte scorsa il ragazzo ha preso un tasso nel bosco, c’è voluta una fatica. Lo ha legato a un albero, il mio Roy, e gli aizzava contro il cane, ma tenendolo per il guinzaglio perché non l’azzannasse. Ogni volta tirava via il cane prima che potesse fare del male al tasso, e per un po’ li faceva riposare. Poi ricominciava.

— È il miglior sistema di allenare un cucciolo per la caccia ai tassi — confermò Roy.

— Abbiamo bisogno di allenare il cane — disse Hank.

— Capisco — rispose Enoch — e sono lieto di sentirlo. Ma che c’entra Lucy?

— Si è messa di mezzo — disse Hank — e ha cercato di portar via Butcher a Roy.

— Per essere muta — intervenne Roy — è una ragazzina troppo impicciona.