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Pensò che forse quella sera sarebbero venuti a trovarlo Mary e David e avrebbe potuto parlarne con loro, poi all’improvviso ricordò.

Non sarebbero più tornati: né Mary, né David o gli altri. L’incantesimo era rotto e lui era rimasto solo.

Si disse, con amarezza, che in fondo era sempre stato solo e il resto era un’illusione, qualcosa d’irreale. Per anni si era ingannato volontariamente e con passione: ed era così che aveva popolato l’angolo del camino con i personaggi della sua immaginazione. Aiutato da una tecnologia sconosciuta e desideroso, nel suo isolamento, di vedere altri esseri umani, aveva dato vita a creature capaci di ingannare tutti i sensi, fuorché il tatto.

E aveva sfidato ogni preoccupazione morale.

"Mezze creature" pensò. "Povere creazioni incomplete, né dell’ombra né di questo mondo."

Troppo umane per appartenere al regno dell’illusione, troppo illusone per appartenere alla Terra.

"Mary, se solo avessi saputo… se avessi saputo, non avrei mai tentato. Sarei rimasto con la mia solitudine."

Ma oramai non poteva più riparare, non poteva far nulla.

"Cosa mi succede?" pensò.

"Cosa mi è capitato?"

"Cosa sta capitando al mondo?"

Non riusciva più a connettere, a seguire il filo del ragionamento. Aveva deciso di rinchiudersi nella stazione per sfuggire alla folla scatenata, ma al tramonto Lewis avrebbe riportato il corpo dello splendente. Se la folla fosse comparsa nello stesso momento, sarebbe stato l’inferno.

Colpito da quel pensiero, rimase a riflettere.

Avvertire Lewis del pericolo sarebbe stato imprudente: poteva darsi che non riportasse il corpo. E invece doveva a tutti i costi renderlo. Prima di notte, lo splendente doveva trovarsi al sicuro nella sua tomba.

Non gli restava che correre il rischio.

La folla inferocita poteva presentarsi davvero. Ma doveva esserci un modo per affrontare la situazione.

Bisognava escogitare qualcosa, pensò.

Avrebbe escogitato qualcosa.

27

La stazione era deserta e silenziosa come quando era uscito. Non c’erano messaggi e la macchina se ne stava silenziosa nel suo angolo, senza neppure ticchettare.

Enoch posò il fucile sulla scrivania e a fianco mise le riviste, poi si tolse la giacca e l’appese alla spalliera della sedia.

Doveva ancora leggere il giornale del giorno prima e aggiornare il diario, cosa che avrebbe richiesto parecchie ore. Anche se avesse scritto in grafia piccola gli ci sarebbero volute diverse pagine che avrebbe riempito con logica e in ordine meticoloso; doveva essere chiaro che tutto era stato scritto il giorno stesso e non con ventiquattr’ore di ritardo. Avrebbe trascritto ogni avvenimento, le sfaccettature, il suo modo di reagire e le riflessioni che gli avevano ispirato. Aveva sempre fatto così, non poteva cambiare di punto in bianco. E aveva fatto così perché si era creato, al di fuori della Terra e della galassia, un mondo tutto suo nel quale lavorava come un monaco medievale in una cella. Era stato un osservatore attento e interessato, né si era limitato a osservare, ma pur restando estraneo a tutto quello che accadeva nel mondo esterno, aveva cercato di andare in fondo alle cose. Durante gli ultimi due giorni, tuttavia, la situazione era cambiata. Sia la Terra che la galassia l’avevano invitato a recitare una parte attiva negli avvenimenti, e non poteva più svolgere il compito dell’osservatore che si accosta ai fatti con imparzialità e freddezza. Non si trattava più soltanto di scrivere.

Si avvicinò allo scaffale dei diari, tolse l’ultimo e incominciò a sfogliarlo. Scoprì che gli restavano pochissime pagine, forse neppure sufficienti a descrivere gli ultimi avvenimenti. Avrebbe dovuto inaugurare un nuovo quaderno, pensò.

Rimase a fissare le righe che aveva scritto solo due giorni prima. L’altro ieri, pensò, e sembravano già pagine sbiadite dal tempo. Forse era proprio così, in fondo: un’altra epoca. L’ultima annotazione prima che il mondo gli crollasse addosso.

A che sarebbe servito continuare il diario? Ormai aveva scritto tutto quello che importava. La stazione sarebbe stata chiusa e la Terra perduta. A prescindere da quello che sarebbe capitato a lui, trasferito in un’altra stazione o lasciato dov’era, per il suo pianeta era la fine.

Chiuse il quaderno con uno scatto rabbioso e lo rimise a posto. Poi tornò alla scrivania.

La Terra era perduta e anche lui. Era furente contro il destino (posto che ci fosse un destino) e contro la stupidità intellettuale non solo del pianeta, ma della stessa galassia, che a causa di inutili battibecchi rischiava di arrestare la propria espansione in quel settore dello spazio. Anche lassù, come succede nel nostro mondo, la complessità della tecnologia, i nobili pensieri, la saggezza e l’erudizione potevano determinare una cultura ma non una civiltà. Per essere veramente civili, occorreva qualcosa di più sottile di una macchina o del pensiero.

Enoch si sentì in preda a una tensione che l’avrebbe spinto a fare qualunque cosa, dall’aggirarsi nella stazione come un leone in gabbia a correre fuori gridando a pieni polmoni, a rompere e a fracassare oggetti per sfogare in qualche modo rabbia e delusione.

Allungò una mano per prendere il fucile, aprì il cassetto dove teneva le munizioni e lacerò il pacchetto, riempiendosi le tasche di cartucce.

Rimase dov’era, con il fucile in mano. Per un attimo si sentì oppresso dal silenzio della stanza, così fredda e muta, poi tornò a posare l’arma.

Che infantilismo sfogare rabbia e risentimento contro cose irreali. Inoltre, non c’era un vero e proprio motivo che giustificasse la sua irritazione. Negli avvenimenti c’era un significato che poteva essere capito e accettato. Era il genere di cosa cui un uomo avrebbe dovuto essere abituato da tempo.

Si guardò intorno e gli parve che la stazione silenziosa e deserta fosse in attesa di un evento previsto nel naturale flusso del tempo.

Rise piano e impugnò nuovamente il fucile.

Irreale o no, gli avrebbe tenuto la mente occupata e per un po’ lo avrebbe liberato dai problemi che lo assillavano. E poi erano dieci giorni che non si esercitava.

28

Lo scantinato, enorme, si estendeva in una nebbiosa semioscurità appena interrotta dalle luci che Enoch aveva acceso in una stanza dopo l’altra, un corridoio dopo l’altro, il tutto scavato profondamente nella roccia della collina.

Laggiù erano i grandi serbatoi pieni delle soluzioni che servivano ai viaggiatori di passaggio, ma anche le pompe e i generatori azionati da un’energia sconosciuta all’uomo. Sotto il pavimento della cantina stavano i recipienti pieni di acidi e altre sostanze, fra cui i corpi temporanei in cui i viaggiatori avevano preso vita arrivando alla stazione, e che si erano lasciati dietro al momento di proseguire il viaggio. Corpi inutili che lui aveva l’incarico di distruggere.

Oltrepassati i serbatoi e i generatori, Enoch arrivò a un corridoio che si perdeva nell’oscurità. Trovò l’interruttore e lo premette, in modo da fare luce; quindi proseguì. Alle pareti si allineavano scaffalature metalliche traboccanti di manufatti, congegni tecnologici e regali portati dai viaggiatori. Dal pavimento al soffitto, l’accumulo di oggetti ricordava quello di un rottamaio galattico. In realtà, pensò Enoch, c’era ben poco da rottamare nella sua collezione. Tutto serviva e aveva uno scopo, pratico o estetico che fosse; anche se non sempre si trattava di uno scopo applicabile agli esseri umani.

In uno scaffale in fondo al corridoio c’erano degli oggetti sistemati con cura particolare e contrassegnati da etichette numerate che si riferivano a determinate pagine di diario. Erano gli oggetti di cui Enoch conosceva l’uso. Alcuni erano insignificanti, altri di grandissimo valore, anche se per il momento non servivano all’uomo; e ve n’erano alcuni, con l’etichetta rossa, che al solo pensarci mettevano i brividi.