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Quando gli abitanti della galassia erano venuti a impiantare la stazione, gli avevano chiesto se per caso avesse qualche "hobby". Lui aveva risposto che gli piaceva la caccia.

Sulle prime non avevano capito bene di che si trattasse. Allora lui aveva mostrato il fucile, spiegando a che cosa serviva. Quindi aveva descritto le sue passeggiate nei dintorni, e cacce di lepri o di scoiattoli e gli appostamenti, in attesa che un cervo scendesse a bere al ruscello. Ma non aveva detto che il fucile gli era servito anche in guerra…

Aveva poi parlato del suo sogno giovanile di cacciare le belve in Africa… E, da quel giorno, gli era stato possibile uccidere animali molto più pericolosi e strani delle belve africane.

Non aveva la minima idea da dove provenissero quelle fiere. Forse si trattava di creazioni fantastiche, di scene registrate su nastri… Ma la scena e gli animali erano sempre diversi.

Spesso si era domandato che cosa pensassero gli abitanti della galassia della sua passione per la caccia, dell’impulso primitivo che spingeva l’uomo a uccidere per il gusto di sventare un pericolo, di misurarsi contro una forza superiore alla sua per valutare la propria astuzia sul metro di quella di altre creature. Avrebbero potuto, i suoi amici della galassia, capire la differenza fra la caccia e la guerra?

Ancora un po’ trasognato, Enoch si mise il fucile sotto il braccio e si avvicinò al pannello, da cui sporgeva una strisciolina di plastica. Staccò la striscia e ne osservò i geroglifici. Il risultato non era certo soddisfacente quella volta: aveva mancato il primo colpo, sparato contro quei "lupi" dal viso umano; gli pareva quasi di vederli sghignazzare con una smorfia satanica, sul cadavere ridotto a brandelli dal cacciatore Enoch Wallace.

30

Ripercorse il lungo corridoio fiancheggiato dagli scaffali carichi di doni, oscuro e polveroso come un vecchio solaio.

Lo irritava il pensiero di quel colpo sbagliato, mentre tutti gli altri erano andati a segno. Gli capitava ben di rado di mancare il bersaglio. Tuttavia, si consolò, pensando che negli ultimi tempi non si era esercitato regolarmente.

All’estremità del corridoio intravide la sagoma scura di un baule che sporgeva di sotto allo scaffale più basso. L’oltrepassò, senza badarci, quando gli venne in mente che quello era il baule dello splendente morto nella stazione.

Enoch tornò sui suoi passi, appoggiò il fucile alla parete e si chinò per trascinare il baule verso il centro del corridoio.

Prima di portarlo laggiù ne aveva esaminato il contenuto e gli era parso che non vi fosse niente d’interessante: ma ora provava un intenso desiderio di guardare tutto più attentamente.

Sollevò il coperchio e rimase inginocchiato, osservando lo strato superiore senza toccare niente. C’era una mantella di stoffa lucida e accuratamente piegata sulla quale era posta una bottiglietta che sembrava ricavata da un grossissimo diamante, tanto la superficie sfaccettata brillava di luci. Accanto alla mantella stavano alcune palline opache, di color viola, che parevano palle da ping-pong cementate insieme. Enoch ricordò che si potevano muovere indipendentemente una dall’altra, anche se adesso non riusciva a staccarle. Forse si trattava di un calcolatore, per quanto la cosa sembrasse poco plausibile (almeno ai suoi occhi, le palline erano tutte uguali). Ma forse gli occhi degli splendenti le vedevano diverse. Forse l’oggetto non era un calcolatore, ma solo un gioco. Un rompicapo.

Allungò la mano per prendere la bottiglia e solo allora si accorse che sul vetro era incisa una riga di fitta e minuta grafia. Tentò di decifrarla, ma da molti anni non leggeva la lingua degli splendenti e aveva dimenticato il significato di molti simboli. Traducendo liberamente, la scritta diceva: DA ASSUMERSI QUANDO SI MANIFESTANO I PRIMI SINTOMI.

Dunque era una medicina. Ma quella sera i sintomi del male si erano manifestati con tale rapidità che il proprietario della bottiglia non aveva fatto in tempo a prenderla ed era morto là, sul divano.

Rimise la boccetta al suo posto, con rispetto, e la sua attenzione fu attratta da una scatoletta di legno sistemata in un angolo. Era di fattura semplicissima e, sollevatone il coperchio, vide che conteneva i sottili fogli metallici di cui gli splendenti si servivano per scrivere.

Sollevò con cautela il primo foglio, una lunga striscia di metallo piegata a fisarmonica, e vide che sotto ce n’erano parecchie altre. La scrittura che le ricopriva era minuta e sbiadita, ed Enoch fece fatica a decifrarla.

"Al mio… amico" lesse dopo attenta osservazione. (Ma forse, più che "amico", la parola significava "fratello di sangue" o "collega". Gli aggettivi che la precedevano erano del tutto incomprensibili.)

Lo scritto non si leggeva facilmente. Aveva una certa somiglianza con la lingua comune, ma l’inconfondibile impronta dell’autore gli conferiva uno stile contorto e fiorito, un modo di esprimersi oscuro. Enoch non riuscì a capire tutte le parole, anche se ne afferrò il senso.

Lo scrivente era stato in visita su un altro pianeta, o forse semplicemente un altro luogo, di cui Enoch non aveva mai sentito parlare. Durante il soggiorno aveva preso parte a una cerimonia (non si capiva bene di che tipo) in previsione della sua prossima morte.

Sbalordito Enoch rilesse la frase, ma non si era sbagliato; nonostante il contesto difficile, la frase era inequivocabile: "La mia prossima morte". Quattro parole molto chiare.

Lo scrivente esortava il suo buon (amico?) a seguire il suo esempio, dicendo che ne avrebbe tratto consolazione e che questo avrebbe reso più agevole e serena la via.

Non c’erano altre spiegazioni o riferimenti. Solo la pacata affermazione di aver fatto qualcosa che andava fatto per prepararsi a morire, come fosse certo che la morte era vicina ma senza la minima paura o apprensione.

Il passo successivo (non c’era suddivisione in paragrafi) parlava di qualcuno che l’autore aveva incontrato e con cui aveva parlato di cose che per Enoch non avevano alcun senso; la stessa terminologia era incomprensibile.

E poi: "Sono molto preoccupato per la mediocrità" (o incompetenza? inabilità? debolezza?) "dell’attuale custode de…" (e seguiva il simbolo della macchina che Enoch aveva chiamato Talismano). "Da…" (seguiva una parola che, dal contesto, sembrava indicare un lunghissimo intervallo di tempo) "e cioè dalla morte dell’ultimo custode in poi, il Talismano non ha più avuto un degno servitore. In realtà, è passato" (altro termine che indicava un tempo lunghissimo) "da quando abbiamo potuto disporre di un vero" (sensitivo?) "per compiere la necessaria funzione. Molti sono stati messi alla prova, ma nessuno è stato giudicato all’altezza del compito e, per mancanza di un tale custode, la galassia ha perduto il suo intimo contatto con il principio dispensatore di vita. Noi qui al…" (tempio? santuario?) "siamo molto preoccupati per la mancanza di un adatto intermediario fra il popolo e…" (alcune parole indecifrabili) "mancanza che farà precipitare la galassia nel caos…" (seguiva un’altra riga di cui Enoch non riuscì a tradurre una sola parola).

Poi lo scrivente passava a un altro argomento: i progetti per la realizzazione di una manifestazione culturale. Ma qui Enoch ricominciava a non capire.

Ripiegò lentamente il foglio e lo ripose nella scatola. Si sentiva un po’ a disagio, come se avesse voluto penetrare nell’intimità di due persone sconosciute, senza averne il diritto. "Noi qui al tempio…" stava scritto nella lettera. Forse lo scrivente era uno dei mistici splendenti, e scriveva a un filosofo, suo vecchio amico. Anche le altre lettere, con tutta probabilità, erano della stessa persona.

Enoch ebbe l’impressione di sentir alitare alle sue spalle una leggera brezza. Si voltò, ma non vide nulla che potesse provocarla.

Subito dopo tutto tornò calmo. "È stato come se passasse un fantasma" pensò Enoch. "Forse il fantasma del defunto splendente?"