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La popolazione di Vega XXI aveva saputo della sua morte nello stesso momento in cui era avvenuta. Aveva saputo anche della sparizione del corpo. E la lettera parlava, con calma sorprendente, della certezza della prossima fine.

Possibile che gli splendenti sapessero tante cose sulla vita e sulla morte?

"Forse la risposta è qui dentro" pensò Enoch, inginocchiato davanti al baule: probabilmente per qualcuno la vita, la morte e il destino non avevano misteri. Questo pensiero gli dava un senso di conforto: esisteva qualcuno capace di risolvere la misteriosa equazione dell’universo.

Certamente Ulisse non gli aveva detto tutta la verità, a proposito del Talismano. Gli aveva raccontato che era scomparso e che la galassia ne era rimasta priva, ma non gli aveva detto che da molti anni il suo potere si era attenuato per colpa del custode, inadatto a mantenere il contatto fra il popolo e la forza spirituale. E il deterioramento che era seguito aveva distrutto i solidi legami della confraternita galattica. I dissidi attuali avevano origine in un lontano passato.

Enoch rimise la scatola nel baule, pensando che un giorno o l’altro, quando fosse stato più calmo, avrebbe tentato di tradurre le lettere per intero. Era sicuro che per loro tramite sarebbe riuscito a capire meglio quella gente misteriosa.

Alzò la mano per richiudere il coperchio del baule, ma poi esitò. Aveva detto "un giorno" e invece poteva non esserci un altro giorno. Vivendo nella stazione aveva perso la nozione del tempo e aveva pensato al futuro, anche lontano, con la certezza di vivere fino a quel momento. Adesso invece tutto cambiava, forse avrebbe dovuto abituarsi a una nuova concezione della vita. Una volta chiusa la stazione, si sarebbe chiusa anche la serie infinita dei giorni.

Risollevò il coperchio e prese di nuovo la scatola, deciso a metterla insieme agli oggetti che avrebbe portato via in caso di abbandono della stazione.

Ma se avesse abbandonato la stazione non avrebbe potuto perorare la causa della Terra davanti alla Centrale Galattica, e Ulisse gli aveva detto che lui rappresentava la Terra. Poteva davvero assumersi quella responsabilità? Lui che apparteneva al diciannovesimo secolo, come poteva rappresentare il ventesimo? Oltre tutto, aveva vissuto quasi cent’anni isolato e in una situazione molto particolare.

Standosene in ginocchio, pensava a se stesso con una curiosità mista a compassione: non riusciva a definirsi, non sapeva se fosse ancora un essere umano o se i rapporti prolungati con esseri appartenenti a popoli alieni avessero fatto di lui una specie di ibrido, un aborto galattico.

Riabbassò lentamente il coperchio, poi spinse il baule sotto gli scaffali.

Prese la scatola di lettere sotto il braccio, raccolse il fucile e salì al piano superiore.

31

In un angolo della cucina vi erano alcune scatole vuote ammucchiate, scatole di cui Winslowe si era servito per portargli le provviste che lui ordinava di tanto in tanto.

Mise i diari, in bell’ordine, nella scatola più grande. Con alcuni vecchi giornali avvolse accuratamente le dodici bottiglie di diamante disposte sulla mensola del camino e le sistemò per bene in un’altra scatola, in modo che non si rompessero. Prese la scatola musicale vegana e, dopo averla incartata, la mise in una quarta scatola insieme con le opere appartenenti alla letteratura delle diverse razze. Sul ripiano della scrivania e nei cassetti c’erano solo cianfrusaglie. Trovò il suo diagramma, l’accartocciò e la gettò nel cestino dei rifiuti.

Ammucchiò le scatole già pronte vicino alla porta, per far più presto a portarle fuori quando fosse il momento. Lewis gli aveva promesso un furgone e lui preferiva avere tutto pronto, perché non voleva nessuno a caricare la sua roba.

Doveva portar via le cose più importanti. Ma quali? I diari e i testi letterari erano senza dubbio importantissimi, ma il resto? Era probabile che ogni cosa, alla stazione, avesse un valore inestimabile, ogni singolo oggetto. Se avesse avuto il tempo e il modo, avrebbe portato con sé l’intero contenuto della casa e della cantina. Era roba sua e aveva il diritto di tenersela, perché gli era stata regalata. Ma poteva darsi che la Centrale Galattica facesse obiezioni e gli proibisse di portare con sé i suoi tesori. Se questo fosse avvenuto, avrebbe dovuto tentare di salvare almeno gli oggetti di cui conosceva l’uso.

Rimase a guardarsi intorno, indeciso; il tavolo era pieno delle cose più disparate, tra cui la piramide di sfere scintillanti che Lucy era riuscita a mettere in movimento.

Mentre guardava si accorse che Cucciolo, strisciando, era caduto giù dal tavolo. Si chinò a raccoglierlo e lo tenne fra le mani per osservarlo meglio.

Dall’ultima volta che l’aveva guardato gli erano cresciute altre due protuberanze e aveva preso un delicato color rosa, mentre prima era blu cobalto.

Forse sbagliava a chiamarlo Cucciolo, perché non era certo che fosse un essere vivente. E ammesso che lo fosse, era diverso da tutte le creature che aveva mai incontrato. Non era né di pietra né di metallo, ma aveva qualcosa sia dell’una che dell’altro. Aveva provato a limarlo, ma non l’aveva neppure scalfito, e non aveva neppure avvertito i colpi di martello con cui l’aveva picchiato. Cresceva, per quanto molto lentamente, e si muoveva, anche se non si capiva in che modo lo facesse. Se lo stava a guardare, rimaneva immobile, ma bastava che distogliesse lo sguardo anche per poco, ed ecco che si spostava, sia pur di qualche centimetro. Pareva che sentisse quando l’osservavano e che si rifiutasse di muoversi. Inoltre, non mangiava né produceva escrementi. Cambiava colore, ma senza una ragione apparente e indipendentemente dall’ambiente che lo circondava.

Glielo aveva regalato un paio d’anni prima un abitante di un pianeta della zona del Sagittario, che Enoch ricordava di aver descritto minuziosamente nel diario. Era una creatura stranissima, simile a una pianta pur senza esserlo, capace di muoversi e dotata di numerose ramificazioni che mandavano un tintinnio argentino quando venivano scosse.

Enoch ricordava di aver domandato a quella creatura delle spiegazioni sul dono che gli aveva portato, ma la "pianta" s’era limitata a riunire i rami intorno al tronco, con il caratteristico tintinnio, e non aveva risposto.

Enoch aveva posato il dono sullo scrittoio, e qualche ora dopo, quando il donatore era già partito, l’aveva trovato nell’angolo opposto della scrivania.

Poiché gli sembrava impossibile che un oggetto simile avesse la facoltà di muoversi, pensò di essersi sbagliato. Qualche giorno più tardi, però, fu costretto a riconoscere che si muoveva davvero.

Rimase immobile, con il Cucciolo in mano; forse era meglio portarsi via quello, invece della piramide di sfere o di qualche altro oggetto. Ma perché poi, improvvisamente, si era deciso a imballare tutto quanto?

Agiva come se avesse ormai stabilito di lasciare la stazione, come se avesse scelto la Terra e abbandonato la galassia. Ma quando e come aveva deciso? Prima di arrivare a una decisione bisogna soppesare e ponderare, e lui non aveva soppesato né ponderato niente. Non aveva esaminato i pro e i contro, non aveva considerato tutti gli aspetti della situazione. D’improvviso, e senza che se ne rendesse conto, la decisione gli si era imposta: decisione che gli era sembrata impossibile ma che invece aveva preso con molta facilità.

"Forse" pensò "inconsciamente ho imparato a comportarmi come gli esseri non-umani con cui ho avuto a che fare in questi anni, e me ne rendo conto solo adesso."

Fuori, nel ripostiglio, c’erano altre due scatole; bisognava prendere anche quelle. Poi avrebbe dovuto tornare in cantina per scegliere gli oggetti da portare con sé… Guardando distrattamente verso la finestra si accòrse che doveva affrettarsi, perché si avvicinava il tramonto. Fra poco sarebbe scesa la sera.

Gli venne in mente che non aveva ancora mangiato, ma non aveva tempo. Ci avrebbe pensato dopo.