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Non il minimo indizio di giornali e riviste, nonostante che dopo il tragitto alla cassetta postale il proprietario della capanna non tornasse mai a casa a mani vuote. Era abbonato al "New York Times", al "Wall Street Journal", al "Christian Science Monitor", allo "Star" di Washington e a molte altre riviste tecniche e scientifiche. Ma nel ripostiglio non c’era traccia di giornali né dei numerosi libri che Wallace comprava; mancavano anche i grossi quaderni rilegati e qualsiasi traccia dell’occorrente per scrivere.

Magari, si disse Lewis, per qualche incomprensibile ragione il rifugio era solo una finzione, un locale creato apposta per far credere agli eventuali visitatori che Wallace vivesse lì, mentre invece abitava in casa. Ma se le cose stavano davvero così, perché tenerlo nascosto?

Lewis si girò verso la porta del capanno e uscì. Fece il giro della casa e raggiunse il portico sotto cui si apriva l’ingresso principale. Ai piedi dei gradini si fermò e si guardò intorno: tutto era silenzio. Il sole di metà mattino cominciava a scaldare e quell’angolo protetto del mondo si crogiolava nel silenzio e nella solitudine, aspettando la calura.

Lewis diede un’occhiata all’orologio, vide che poteva disporre di circa quaranta minuti, salì i pochi gradini e attraversò il portico, diretto alla porta principale. Afferrò la maniglia e fece per girarla, ma non si mosse. La maniglia restò dov’era e lui strinse più forte, cercando di dare mezzo giro.

Meravigliato, provò di nuovo inutilmente. Sembrava che la maniglia fosse ricoperta di una sostanza dura e liscia, simile a uno strato di ghiaccio, su cui le dita scivolavano senza riuscire a far presa.

Si chinò per accertarsi che la supposizione fosse esatta, ma non vide traccia di vernice o altro. La maniglia era normalissima e in condizioni perfette… anche troppo. Sembrava lucidata e strofinata da poco: neppure un granello di polvere, non una ditata. Allora provò a graffiare la maniglia con l’unghia del pollice, ma l’unghia scivolò senza lasciare segno. Lewis passò il palmo sul battente e scoprì che il legno era lucido e liscio: a passare la mano non c’era frizione. Il palmo scivolava come se la porta fosse ricoperta da una patina di grasso, ma quando lo ritirò Lewis constatò che era perfettamente pulito. Niente permetteva di spiegare l’estrema levigatezza del legno.

Si allontanò e toccò le assi delle pareti, provando la stessa impressione. Ne dedusse che la casa era rivestita da una sostanza liscia e scivolosa, tanto liscia che la polvere non riusciva a posarsi e le intemperie non la danneggiavano.

Fece qualche passo sotto il portico e si avvicinò a una finestra. Solo allora si accorse di un particolare che non aveva notato prima, e che rendeva la casa ancora più sinistra: le finestre erano nere. Non avevano tende né scuri, erano semplicemente rettangoli neri, come occhiaie vuote nello scheletro della casa.

Lewis appoggiò il viso alla finestra, facendosi ombra con le mani per ripararsi dal sole, ma anche con questo accorgimento non riuscì a scorgere l’interno. Si trovò di fronte a una pozza tenebrosa senza qualità riflettenti: non riuscì a vedere nemmeno il proprio volto specchiato dal vetro. C’era solo il buio, come se la luce fosse stata subito assorbita, risucchiata, trattenuta. Come se, dopo aver raggiunto la finestra, non fosse più in grado di tornare indietro.

Lewis uscì da sotto il portico e fece lentamente il giro della casa, esaminandola. Tutte le finestre erano uguali a quella che aveva visto: scure pozze opache da cui la luce veniva risucchiata. E l’esterno era liscio e duro.

Batté il pugno sulle assi e ne uscì un rimbombo di pietra. Esaminò le pareti in pietra che costituivano la base della casa e constatò che anch’esse erano lisce e lucenti. C’erano solchi coperti di malta fra una pietra e l’altra, per non parlare delle asperità nei singoli ciottoli, ma la mano che passava sulla parete non trovava dislivelli.

Una sostanza invisibile era stata versata sulle pietre per livellarne le asperità, colmare i fori ed eliminare l’originaria ruvidezza.

Lewis si drizzò in piedi e tornò a guardare l’ora: gli restavano solo dieci minuti, doveva sbrigarsi.

Ridiscese la collina fino all’intrico del vecchio frutteto, e quando si voltò a guardare la casa ebbe l’impressione che fosse diversa. Non era più soltanto un edificio, aveva una personalità e uno sguardo beffardo, come se da un momento all’altro dovesse scoppiare a ridere di una risata malevola che reprimeva da tempo, ma ormai pronta a esplodere.

Lewis s’inoltrò nel frutteto, aprendosi un varco fra i rami. Non c’era traccia di sentiero e sul terreno l’erba e le gramigne crescevano alte e fitte. Evitò i rami che s’incurvavano da ogni parte e passò intorno a un tronco abbattuto da una tempesta di vento molti anni prima.

Di tanto in tanto alzava una mano e coglieva una mela vizza e rinsecchita, ma dopo averla addentata la gettava via disgustato: non erano più commestibili, come se dalla terra abbandonata avessero assorbito una fondamentale amarezza.

Alla estremità del frutteto trovò la staccionata e le tombe che racchiudeva. Lì, canne ed erba non erano troppo alte e la staccionata portava i segni di riparazioni recenti. Ai piedi di ciascuna tomba, di fronte alle tre rozze lapidi di pietra viva, c’era un cespuglio di peonie, gran masse di piante inselvatichite dal tempo.

In piedi davanti alla staccionata segnata dal tempo, Lewis si rese conto che era il cimitero della famiglia Wallace. Eppure le tombe avrebbero dovuto essere due. Cosa nascondeva la terza? Spinse il cancello sconnesso e si addentrò nel cimitero. Ai piedi delle tombe si fermò a leggere le iscrizioni. L’incisione era rozza, evidentemente eseguita da mani poco abituate a quel genere di lavoro. Non c’erano frasi religiose, né bassorilievi di angeli o agnelli, nessuna delle figurazioni simboliche con cui si ornavano le tombe verso il 1860. C’erano solo i nomi e le date.

Sulla prima lastra: AMANDA WALLACE 1821-1863.

Sulla seconda: JEDEDIAH WALLACE 1816-1866.

E sulla terza…

4

— Per favore, mi dia quella matita — chiese Lewis.

Hardwicke smise di rigirarsela fra i palmi e gliela tese.

— Anche un foglio? — domandò.

— Sì, grazie — rispose Lewis.

Poi, chinatosi sulla scrivania, disegnò rapidamente qualcosa.

— Ecco — disse, tendendo il foglio ad Hardwicke.

L’altro aggrottò la fronte.

— Ma non ha alcun senso! — esclamò. — Tranne l’ultimo segno.

— La cifra otto disposta orizzontalmente. Sì, lo so, è il simbolo dell’infinito.

— E il resto?

— Non saprei — rispose Lewis. — Questa è l’iscrizione della terza tomba. L’ho copiata com’è.

— E adesso la sa a memoria.

— Direi. L’ho studiata parecchio.

— In vita mia non ho mai visto niente di simile. Non che sia competente in materia… anzi, m’intendo poco di cose del genere.

— Si metta il cuore in pace, nessuno è riuscito a decifrarla. Non somiglia lontanamente a nessuna scrittura conosciuta, per quanto antica o poco usata. Ho consultato almeno una dozzina di esperti, dicendo che si tratta di un’iscrizione che ho trovato incisa su una rupe, e son certo che quasi tutti mi hanno preso per matto: per uno di quei tipi convinti che i romani, i fenici o gli irlandesi avessero fondato colonie in America prima dell’arrivo di Colombo.

Hardwicke posò il foglio.

— Ora capisco perché ha detto di avere un maggior numero di domande senza risposta che all’inizio delle indagini. Non si tratta più di risolvere il problema di un uomo d’aspetto giovanile che in realtà ha passato da un pezzo il secolo: c’è anche quello della casa e dell’iscrizione sulla terza tomba. Non ha mai parlato con Wallace, vero?