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— Da secoli, il suo splendore non è così bello! — disse Ulisse. — Io, certo, non l’ho mai visto così. Non è meraviglioso?

— Sì — confermò Enoch.

— Adesso torneremo a essere uniti — riprese Ulisse. — Non saremo più tante razze, ma un popolo solo.

— Ma lo sconosciuto che l’aveva…

— Era un furbacchione. Voleva fare un ricatto.

— Allora l’aveva rubato?

— Non lo sappiamo ancora con precisione — rispose Ulisse — ma lo scopriremo.

Proseguirono, in silenzio, nel bosco. A oriente, fra i rami degli alberi, si intravedeva il chiarore della luna che stava per sorgere.

— Non capisco una cosa — disse Enoch.

— Parla.

— Come mai quella creatura non sentiva l’effetto del Talismano? Altrimenti, non l’avrebbe rubato.

— Soltanto una persona su milioni è in grado di… come dire? Di farlo funzionare? Se avessimo tentato tu o io, non saremmo riusciti a nulla. Ma se quella tal persona lo sfiora anche solo con un dito, esso prende vita. Esiste un tipo di sensibilità capace di stabilire un rapporto tra questo strano congegno e la forza spirituale cosmica. Soltanto la sensibilità della creatura vivente, permette alla macchina di captarla e di trasmetterla a noi.

Dunque si trattava solo di un congegno meccanico, anche se diverso da tutti gli altri, come il primo aminoacido della giovane Terra era stato diverso dall’attuale cervello umano. Tuttavia, per quanto meravigliosa, la macchina non poteva funzionare senza l’apporto di un essere vivente! Forse il Talismano era la massima espressione dell’intelligenza delle creature: impossibile andare più in là.

O, forse, le possibilità dell’ingegno erano illimitate e non sarebbe mai giunto il momento in cui una creatura, o una razza, si sarebbero fermate dicendo: "Basta, non possiamo andar oltre. Questo è il limite massimo". Ogni nuovo progresso, infatti, apre mille strade, e ogni strada sì dirama in infiniti sentieri. "Non ci sarà mai una fine" pensò Enoch. "Mai una fine… a nulla."

Raggiunto il campo, si diressero alla volta della stazione. Dal versante della collina, proveniva un rumore di passi affrettati.

— Enoch! — chiamò una voce nel buio. — Enoch, sei tu?

— Sì, Winslowe — rispose Enoch che aveva riconosciuto la voce. — Cosa succede?

Il postino sbucò dalle tenebre e si fermò, ansimando, davanti a loro.

— Enoch, vengono! Hanno due autocarri. Io sono riuscito a precederli e alla svolta, dove comincia il sentiero, ho rovesciato un barattolo di chiodi a tre punte. Così perderanno tempo.

— Chiodi a tre punte? — domandò Ulisse.

— La folla… Mi danno la caccia… — tentò di spiegare rapidamente Enoch.

— Ah, capisco. I chiodi servono per sgonfiare gli pneumatici.

Winslowe fece un passo avanti, con gli occhi fissi sul bagliore che emanava dal Talismano.

— È Lucy Fisher? — domandò.

— Certo — rispose Enoch.

— Suo padre è sceso di corsa in paese poco fa dicendo che era scomparsa un’altra volta. Ormai tutto era tornato tranquillo, ma lui è riuscito ad aizzarli di nuovo. Allora sono andato in magazzino, ho preso i chiodi e li ho preceduti.

— La folla? — domandò Ulisse. — Non capisco.

Winslowe lo interruppe, perché non aveva ancora detto tutto. — L’uomo del ginseng ti aspetta a casa con un furgone coperto.

— Ah, Lewis con il corpo dello splendente — disse Enoch.

— Faremmo meglio a muoverci — propose Ulisse. — Anche se non capisco molto, mi pare che la situazione stia diventando critica.

— Ma che succede, ora? — strillò il postino. — Che cos’ha in mano Lucy, e chi è questo tizio?

— Ti spiegherò tutto dopo — disse Enoch. — Adesso non ho tempo.

— Ma, Enoch, stanno arrivando…

— Penserò a loro quando sarà il momento; adesso ho una cosa più importante da fare.

Si avviarono tutti e quattro di corsa verso la stazione, che torreggiava cupa sul ciglio della collina, e a un tratto Winslowe gridò: — Guarda, sono già alla svolta. Si vedono i fari.

Erano ormai sull’aia, e alla debole luce del Talismano apparve la sagoma di un furgone, mentre una figura usciva dall’ombra correndo verso di loro.

— È lei, Wallace?

— Sì — rispose Enoch. — Mi scusi se non sono potuto venire.

— Non sapevo cosa fare — disse Lewis.

— C’è stato un imprevisto e sono stato costretto a uscire.

— È il corpo dell’onorevole defunto? — domandò Ulisse. — È nel furgone?

Lewis annuì.

— Dobbiamo portarlo nel frutteto e non ci si può arrivare col furgone — disse Enoch.

— L’altra volta ci hai pensato tu — gli ricordò Ulisse. — Ma ora, fratello mio, vorrei chiederti l’onore di farlo io.

— Certamente — consentì Enoch. — Sono sicuro che lui ne sarebbe felice. — Avrebbe voluto aggiungere che era felicissimo di non doversi occupare anche di quella faccenda, ma si trattenne, perché Ulisse non avrebbe capito.

— Vengono — gridò Winslowe a un tratto. — Sento il motore della prima macchina.

Aveva ragione. Poco dopo, infatti, si sentì il rumore di passi calmi e decisi, come quelli di un mostro sicuro di poter catturare la preda.

Enoch si voltò, alzando il fucile.

Alle sue spalle, Ulisse sussurrò piano: — Forse sarebbe meglio portarlo alla tomba nella piena gloria e alla luce del Talismano ritrovato.

— Ricorda che Lucy non ti può sentire — gli ricordò Enoch. — Devi farti capire a gesti.

Ma Lucy aveva capito; senza perdere tempo aprì la custodia del Talismano e lo tenne alto perché diffondesse la luce sull’aia, sulla casa e fin nel campo. Si diffuse allora una calma insolita, come se il mondo avesse trattenuto il respiro e stesse attento e reverente in attesa di un avvenimento straordinario.

E una pace immensa scese fin nelle più intime fibre dei presenti. Una pace dolcissima, come si prova al tramonto di una lunga e soffocante giornata o sul fare dell’alba, in primavera. La si sentiva nel cuore e tutto intorno, silenziosa, infinita, così profonda che sarebbe durata per l’eternità.

Enoch si voltò verso il campo, dove stavano gli uomini venuti a dargli la caccia, e vide, al limite estremo dell’aureola di luce del Talismano, un gruppetto grigio, come di lupi intimoriti da un fuoco da campo.

Lentamente gli uomini indietreggiarono fino a perdersi nell’oscurità retrostante. Ma uno di loro si mise a correre disperatamente, scendendo a rompicollo la collina, e urlando di terrore, come un cane spaventato.

— Quello è Hank — disse Winslowe.

— Mi spiace che si sia spaventato — commentò, asciutto, Enoch. — Nessuno dovrebbe aver paura del Talismano.

— Ha paura di se stesso — corresse il postino. — Vive con il terrore in corpo.

Enoch pensò che era vero: così era fatto l’uomo. Portava il terrore con sé, e aveva sempre avuto paura soprattutto di se stesso.

34

La tomba venne riempita e livellata, e i cinque sostarono accanto a essa, ascoltando il vento che spirava tra i rami dei meli illuminati dalla luna, mentre da lontano i caprimulgi si chiamavano l’un l’altro nell’argentea notte.

Enoch rilesse al lume della luna la scritta incisa sulla rozza pietra: la luce era insufficiente, ma lui la sapeva a memoria: "Qui giace un essere venuto da una lontana stella. Ma questa terra non gli è straniera, perché nella morte egli è partecipe dell’universo."

La sera prima, il diplomatico vegano aveva detto che in quelle parole sentiva lo spirito della sua gente. Lui non lo aveva contraddetto, ma lo splendente sbagliava; il sentimento che aveva spinto lui, Enoch, a scriverle, non era solo vegano, ma anche umano.