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Si staccò a lenti passi dal ciglio del dirupo e, arrampicandosi sui massi, risalì la collina. Sentiva il fruscio di mille piccoli animali che strisciavano fra le foglie secche: su tutto il bosco aleggiava la serenità di quella luce splendente: non proprio così intensa, brillante e meravigliosa come quando essa aveva realmente illuminato quei luoghi, ma tuttavia ancora presente.

Uscito dal bosco, Enoch attraversò il campo e gli parve che l’edificio, cupo e buio sul ciglio della collina, non fosse più solo una stazione ma anche la sua vera casa, com’era stata un tempo.

36

Entrò nella stazione e gli sembrò che tutto fosse calmo e tranquillo, quasi come una tomba. Sulla scrivania ardeva una lampada e sul tavolino da caffè la piccola piramide mandava i suoi bagliori luminosi, simile a una di quelle sfere in cristallo che usavano nei ruggenti anni Venti per trasformare la pista da ballo in un posto magico. I riflessi schizzavano dappertutto, come un incredibile stormo di lucciole in technicolor.

Enoch si fermò un istante, indeciso, non sapendo che fare. Mancava qualcosa e un tratto si rese conto di cosa: in tanti anni c’era sempre stato un fucile, appeso al gancio o sopra la scrivania. Ma ora non c’era più.

Doveva calmarsi, pensò, e rimettersi al lavoro. Doveva riporre tutti gli oggetti che aveva imballato, scrivere molte pagine di diario e leggere i giornali. Aveva molte cose da fare.

Ulisse e Lucy erano partiti da un paio d’ore, diretti alla Centrale Galattica, ma la presenza del Talismano aleggiava ancora nella stanza, o forse non nella stanza, ma dentro di lui. Forse l’avrebbe portato con sé per sempre.

Attraversò la stanza con passo lento e andò a sedersi sul divano. Di fronte a lui la piramide di sfere continuava a mandare barbagli colorati. Allungò una mano per prenderla, poi rinunciò. A che serviva esaminarla per la millesima volta? Se non ne aveva capito il segreto prima, cosa poteva aspettarsi adesso?

Era un bellissimo oggetto, ma inutile.

Si chiese come Lucy se la sarebbe cavata e gli parve di sapere che stesse bene. Se la sarebbe cavata dovunque la portassero.

Invece di starsene seduto lì in ozio, avrebbe fatto meglio a mettersi al lavoro; a parte gli arretrati, ormai non lavorava più soltanto per sé, ma anche per la Terra. E presto la Terra avrebbe bussato alla porta. Erano previste conferenze, incontri e molte altre cose. Fra poche ore sarebbero arrivati i giornalisti. Ma prima sarebbe tornato Ulisse e con lui, forse, qualcun altro, per aiutarlo.

Avrebbe mandato giù un boccone, poi subito al lavoro. Se avesse lavorato tutta la notte, il grosso sarebbe andato a posto.

"Le notti di solitudine" pensò "sono ideali per lavorare." Si sentì abbandonato, una sensazione strana che non avrebbe dovuto provare. Non era più solo nel senso in cui lo aveva pensato appena poche ore prima: ora aveva la Terra e la galassia, Lucy e Ulisse, Winslowe e Lewis, e il vecchio filosofo sepolto nel frutteto, sotto i meli.

Si alzò e andò alla scrivania, dove prese la statuetta che Winslowe aveva scolpito per lui. La osservò alla luce della lampada, rigirandola lentamente fra le mani. Dava effettivamente un’idea di solitudine, l’essenziale solitudine di un uomo che aveva sempre camminato da solo.

Ma aveva dovuto farlo, non c’era stata scelta. Era sempre stato un lavoro per un uomo solo. Il suo compito non era finito, anzi restava molto da fare, ma ormai si era chiusa la prima fase e stava per cominciare la seconda.

Rimise a posto la statuetta e pensò che non aveva dato a Winslowe il blocco di legno portatogli dal thubano. Adesso avrebbe potuto raccontare all’amico da dove veniva il materiale che gli aveva regalato. Grazie ai diari avrebbe rintracciato l’origine di ogni singolo pezzo, ed era sicuro che il vecchio Winslowe ne sarebbe stato felice.

Un lieve, improvviso fruscio lo costrinse a voltarsi.

— Mary — esclamò.

Lei stava proprio al limite dell’ombra e i barbagli colorati della piramide di sfere le davano un aspetto fiabesco. Paragone più che appropriato, pensò Enoch in preda all’eccitazione, perché voleva dire che il suo regno fantastico non era perduto.

— Dovevo venire — disse Mary. — Eri solo, Enoch, non potevo starmene lontano.

Non poteva stargli lontano, era vero. L’aveva creata così: incapace di sottrarsi all’impulso di accorrere quando era desiderata.

Era una trappola, pensò Enoch, alla quale nessuno dei due sarebbe sfuggito. Non erano più liberi di agire di propria iniziativa, dovevano ubbidire al cieco meccanismo che lui aveva messo in azione.

Mary non sarebbe dovuta venire e lo sapeva, ma non aveva potuto farne a meno. Sarebbe stato così sempre?

Rimase immobile, combattuto fra il bisogno di lei e il vuoto irreale di cui sapeva che era fatta. Mary fece qualche passo verso di lui, ma fra un momento si sarebbe fermata.

Conosceva le regole, esattamente come lui non poteva ammettere l’inganno.

Invece non si fermò e gli si avvicinò tanto che Enoch sentì la fragranza di fiori di melo che aveva addosso. Poi allungò una mano e gliela posò sul braccio.

Non era il tocco di un’ombra: lui avvertì nettamente la pressione delle dita e la loro freschezza.

Enoch si irrigidì, con la mano di Mary sul braccio.

Le luci colorate, pensò. La piramide di sfere!

Solo adesso ricordava che gli era stata regalata da un viaggiatore appartenente a una delle razze aberranti di Alphard. Leggendo la letteratura di quei popoli aveva imparato l’arte di creare i personaggi fatati e i suoi maestri, gentilmente, avevano cercato di aiutarlo regalandogli la piramide, ma lui non aveva capito. C’era stato un fraintendimento, cosa tutt’altro che infrequente. Nella babele galattica era facilissimo non capirsi o soltanto non sapere.

La piramide di sfere era un congegno meraviglioso ma semplice, l’agente catalizzatore che distruggeva ogni tipo d’illusione e trasformava il regno incantato in realtà. Ti permetteva di plasmare quello che volevi e poi, con l’aiuto della piramide, di dargli vita come se non fosse mai stato immaginario.

Tranne, pensò Enoch, per i particolari sui quali non avresti mai potuto ingannarti. Perché tu ricordavi come stavano le cose.

Allungò una mano, incerto, ma lei aveva ritratto la sua, facendo un passo indietro.

Nel silenzio della stazione — il terribile, desolato silenzio — stettero muti uno di fronte all’altro, illuminati dall’incessante arcobaleno delle sfere. I frammenti colorati volavano come topi in corsa.

— Mi spiace — disse Mary — ma è inutile. Noi sappiamo e non possiamo ingannare noi stessi.

Lui rimase muto e vergognoso.

— Ho aspettato tanto questo momento — riprese Mary. — L’ho sognato.

— Anch’io — confessò Enoch. — Non l’avrei mai creduto possibile.

Ed era proprio così. Finché la cosa era sembrata irrealizzabile, avevano potuto sognarla. Un sogno romantico, lontano, impossibile. Forse era stato romantico proprio perché lontano e impossibile.

— È come se una bambola o un orsacchiotto di pezza avessero preso vita — disse Mary. — Mi dispiace, Enoch, ma tu non potresti mai amare una bambola o un orsacchiotto di pezza diventati improvvisamente vivi. Ricorderesti sempre com’erano prima: la bambola col suo stupido sorriso dipinto e l’orso con l’imbottitura che esce dagli strappi.

— No — esclamò Enoch. — No.

— Povero Enoch — disse Mary — sarà dura per te. Vorrei aiutarti, perché avrai una lunga vita per ripensarci.

— Ma tu — gridò lui. — Che cosa farai, adesso?

Era stata lei, pensò, a trovare il coraggio. Il coraggio di prendere le cose per quello che erano.

Come l’aveva intuito? Come aveva saputo?