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In fondo alla pagina c’era una nota: "Vedi 16 ottobre 1931".

Girò le pagine finché arrivò al 16 ottobre, il giorno in cui Ulisse era venuto a ispezionare la stazione.

Naturalmente il suo vero nome non era Ulisse, anzi, non aveva nome perché fra la sua gente non ce n’era bisogno. Per l’identificazione ricorrevano a un’altra terminologia, molto più espressiva. Ma si trattava di concetti talmente astrusi, anche solo a doverli immaginare, che gli esseri umani non riuscivano a servirsene.

— Ti chiamerò Ulisse — aveva detto Enoch la prima volta che si erano incontrati. — Bisogna che ti dia un nome.

— Mi piace — aveva risposto lo sconosciuto, che ormai non era più tale. — Posso chiederti in base a cosa lo hai scelto?

— Apparteneva a un grande uomo della mia razza.

— Sono contento: ha un suono dignitoso e nobile e, detto fra noi, sono fiero di portarlo. Io ti chiamerò Enoch; noi due dovremo lavorare insieme per molti dei vostri anni.

"Infatti ne sono passati molti…" pensò lui, fissando le pagine del diario che portava la data di più di trent’anni prima. Erano stati anni interessanti, avevano arricchito la sua esperienza in modo che non sarebbe stato possibile nemmeno immaginare, prima di vedere quello che aveva visto.

E tutto questo sarebbe continuato ancora a lungo, forse per secoli o millenni… Finché, alla fine, cosa sarebbe venuto a sapere?

Ma forse la conoscenza non era l’aspetto più importante del processo.

Magari non sarebbe successo proprio niente, perché adesso c’era un intruso. Qualcuno lo sorvegliava (forse uno, forse più persone) e certo si sarebbero fatti vivi tra breve, chiunque fossero. Enoch non sapeva come difendersi dalla minaccia, bisognava che arrivasse il momento. Ma sapeva che era inevitabile: in tutti quegli anni aveva sempre sentito che prima o poi sarebbe successo. Anzi, c’era da meravigliarsi che non si fosse già verificato.

Ne aveva parlato a Ulisse il primo giorno che si erano conosciuti: lui era seduto sui gradini del portico e ricordava tutto come se fosse ieri.

6

Era seduto sui gradini, nel tardo pomeriggio. Rivedeva le bianche, gonfie nuvole temporalesche che si ammassavano di là dal fiume, oltre le colline dello Iowa. Era stata una giornata calda e soffocante, senza un filo d’aria. Sull’aia, alcune galline scarruffate continuavano a becchettare il terreno, più per il beneficio del movimento che nella speranza di procurarsi del cibo. Il fremito dei passeri che volavano dall’abbaino del granaio alla siepe di caprifoglio che costeggiava il granaio al di là della strada, era un suono duro e secco, come se le penne si fossero irrigidite per il caldo.

Ed eccolo seduto a guardare le nuvole, pensò Enoch, quando c’era del lavoro da fare: arare il granturco, raccogliere il fieno, battere e mietere il grano.

Nonostante quello che era successo bisognava continuare a vivere, passare le giornate meglio che si poteva. Era una lezione, disse a se stesso, che avrebbe dovuto imparare in tutto il suo valore, negli ultimi anni. Ma la guerra era diversa da quello che gli capitava adesso. In guerra la morte è sempre presente e si è pronti a riceverla quando arriva… solo che questa non era la guerra, era la pace cui era ritornato. E in tempo di pace un uomo ha il diritto di aspettarsi che la violenza e l’orrore siano banditi.

Si ritrovava solo come mai era stato prima. Ora, o mai più, avrebbe potuto incominciare una nuova vita; ora o mai più avrebbe dovuto cominciare un’altra vita. Ma lì o altrove, sul terreno della fattoria di suo padre o in qualsiasi altro luogo, sapeva che sarebbe stato l’inizio di nuove amarezze e angosce.

Seduto sui gradini, con i gomiti sulle ginocchia, continuava a fissare le nuvole che andavano ammassandosi a occidente. Sarebbe piovuto e la terra ne avrebbe tratto giovamento; ma poteva darsi di no, perché nelle valli dei fiumi convergenti le correnti d’aria erano quanto mai capricciose e non si poteva dire dove sarebbero andate le nuvole.

Non vide il viaggiatore finché non arrivò al cancello. Era alto e dinoccolato e aveva i vestiti coperti di polvere, come se avesse camminato a lungo. Risalì il sentiero ed Enoch lo fissò, senza alzarsi dai gradini.

— Buongiorno, lei — disse quando lo sconosciuto gli fu davanti. — È una giornata molto calda per andarsene a piedi. Perché non si siede un momento?

— Molto volentieri — rispose lo sconosciuto. — Ma prima potrei avere un po’ d’acqua?

Enoch si alzò: — Venga — disse. — Gliene pomperò un po’ di quella fresca.

Attraversò l’aia fino alla pompa, staccò il mestolo dal gancio e lo porse allo sconosciuto. Poi afferrò il manico della pompa e manovrò avanti e indietro.

— La lascio scorrere. Ci vuole un po’ perché venga fresca — spiegò.

L’acqua uscì a flotti dal rubinetto, schizzando sulle assi che coprivano il pozzo. Continuò a schizzare mentre Enoch manovrava la pompa.

— Crede che pioverà? — domandò il viandante.

— Non si può mai dire — rispose Enoch. — Staremo a vedere.

C’era qualcosa che lo turbava, nel viandante. Non si trattava di un particolare definito, ma di una stranezza vaga e inquietante. Mentre pompava lo studiò da vicino e arrivò alla conclusione che, probabilmente, lo sconosciuto aveva le orecchie troppo appuntite. Ma doveva essere uno scherzo dell’immaginazione, perché, guardandolo meglio, dovette riconoscere di essersi sbagliato.

— Credo — disse Enoch — che l’acqua dovrebbe essere fresca, ormai.

Il viandante riempì il mestolo e lo offrì a Enoch, che rifiutò.

— Prima lei. Ne ha più bisogno di me.

Lo sconosciuto bevve avidamente, versandosi l’acqua sul mento.

— Ancora? — domandò Enoch.

— No, grazie. Ma ne riempirò un mestolo per lei, vuole?

Enoch pompò e quando lo sconosciuto gli porse il mestolo pieno lo vuotò fin quasi all’ultima goccia, stupito di avere tanta sete.

Riappese il mestolo al gancio e disse: — Adesso possiamo andare a sederci.

Lo straniero sorrise. — Lieto dell’occasione. — Enoch tirò fuori di tasca un fazzolettone rosso e si asciugò la faccia. — L’aria è opprimente, verrà certamente un temporale.

Mentre si asciugava, Enoch capì a un tratto perché lo straniero lo turbasse. Nonostante gli abiti sciupati e le scarpe piene di polvere che indicavano una lunga camminata, nonostante l’afa prima della pioggia, lo sconosciuto non sudava. Era fresco e pulito come se avesse passato una giornata di primavera sdraiato sotto un albero.

Enoch rimise il fazzoletto in tasca e i due si diressero verso i gradini del portico, dove sedettero uno accanto all’altro.

— Immagino che venga da lontano — disse Enoch, indagando con discrezione.

— Da molto lontano — convenne lo sconosciuto. — Ne ho fatta di strada, da casa.

— E deve camminare ancora molto?

— No — fece l’altro — credo di essere arrivato.

— Vuol dire… — cominciò Enoch, lasciando la domanda in sospeso.

— Voglio dire che ero diretto qui — continuò lo sconosciuto. — A questi gradini. Cercavo un uomo e credo di averlo trovato: quell’uomo è lei. Non sapevo come si chiamasse o che aspetto avesse, ma sapevo che avrei finito per trovarlo.

— Come sarebbe, io? — domandò Enoch, sbalordito. — Perché qualcuno dovrebbe cercarmi?

— Volevo un uomo che avesse certi requisiti: per esempio, che gli piacesse guardare le stelle e si domandasse cosa fossero.

— Sì, qualche volta l’ho fatto — ammise Enoch. — Certe notti, quando dormo nei campi steso sopra una coperta, guardo le stelle e mi domando che cosa siano e come mai sono là, ma soprattutto perché ci sono. Ho sentito dire che sono astri, soli come quello che brilla sulla Terra, ma questo non lo so e credo che nessuno ne sappia granché.