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— Alcuni sanno molte cose sulle stelle — dichiarò il viandante.

— Forse lei — lo canzonò Enoch, perché l’uomo non aveva certo l’aspetto di uno che sapesse molte cose.

— Sì, io — confermò l’altro. — Anche se c’è chi ne sa di più…

— A volte mi domando se davvero le stelle siano degli astri — disse Enoch — e se non vi siano pianeti abitati.

Ricordò che una notte, seduto in compagnia davanti a un fuoco sotto il cielo stellato, aveva fatto l’ipotesi che i pianeti fossero abitati anche intorno ad altri soli. Tutti si erano messi a ridere e l’avevano preso in giro per parecchi giorni, cosicché non ne aveva mai più parlato. Non che la cosa importasse molto, visto che non ne era convinto neanche lui; in fondo, si era trattato di quattro chiacchiere intorno a un fuoco.

Ed ecco che ora ne parlava di nuovo con un estraneo.

— Lei è convinto che i pianeti siano abitati? — domandò l’altro.

— Era solo un pensiero ozioso… — si schermì Enoch.

— Meno di quanto creda — dichiarò il viandante. — Esistono altri pianeti ed esistono altri uomini. Io sono uno di loro.

— Ma lei… — gridò Enoch. Subito ammutolì, perché la faccia del viandante si era screpolata e cadeva a pezzi, scoprendo un viso che non aveva nulla di umano.

E mentre la faccia falsa si sgretolava, rivelando l’altra, una gran luce sfolgorò nel cielo, seguita da un tuono così forte che la terra tremò, mentre da lontano arrivava lo scroscio della pioggia sulle colline.

7

"Così ha avuto inizio la cosa" pensava Enoch "quasi cento anni fa." La fantasticheria davanti al fuoco all’aperto si era dimostrata reale, e ora sulle carte galattiche la Terra era segnata come stazione di transito per i viaggiatori interstellari. Stranieri, una volta, ma adesso non più. I visitatori non erano estranei perché sapeva che, sotto qualunque forma si presentassero, erano creature viventi.

Tornò ad abbassare lo sguardo sulla pagina datata "16 ottobre 1931" e la scorse rapidamente. Verso la fine aveva scritto:

Ulisse dice che i thubani del VI pianeta sono forse i più grandi matematici della galassia. A quanto pare hanno creato un sistema di numerazione superiore a tutti gli altri ed estremamente utile, specie nel campo della statistica.

Richiuse il quaderno e si mise a sedere sulla sedia, domandandosi se gli esperti di statistica di Mizar X fossero al corrente del lavoro svolto dai thubani. Probabilmente sì, perché, sotto alcuni aspetti, la loro matematica era completamente diversa dalle altre.

Spinse da parte il diario e aprì un cassetto per tirare fuori un diagramma che stese sulla scrivania. Se avesse potuto esserne certo… se avesse conosciuto meglio la statistica di Mizar… Da dieci anni si affaticava sul diagramma, controllando e ricontrollando gli elementi contrari al sistema dei Mizar, provando e riprovando per vedere se i dati da cui partiva fossero quelli giusti.

Alzò il pugno e lo batté sulla scrivania. Se avesse potuto essere sicuro, parlarne con qualcuno… Ma si era sempre guardato dal farlo, perché sarebbe equivalso a mettere a nudo la vulnerabilità della razza umana.

E lui era ancora un uomo. Buffo che si sentisse così profondamente umano, anche dopo più di un secolo di incontri con esseri che venivano da tutte le parti dell’universo. Ma restava una creatura della Terra.

Sotto molti aspetti, certo, i legami che l’univano alla Terra erano stati tagliati: il vecchio Winslowe Grant era l’unico che gli rivolgesse la parola, ormai. I vicini lo evitavano e non c’era nessun altro nella regione deserta, eccezion fatta per quelli che lo spiavano e che intravedeva di quando in quando, per brevissimi istanti.

Solo il vecchio Winslowe Grant, Mary e gli altri esseri che venivano dal regno delle ombre interrompevano la solitudine di Enoch, legandolo alla Terra: loro e i campi incolti che circondavano la casa, ma non la casa stessa, divenuta ormai estranea.

Chiuse gli occhi per rivedere l’immagine della fattoria com’era un tempo. In quella stessa stanza c’era stata la cucina: in un angolo la mostruosa stufa di ferro nero, con la grata che pareva una bocca aperta in un sogghigno. Contro la parete c’era il tavolo su cui mangiavano in tre e di cui ricordava perfettamente l’aspetto: l’ampolla con l’aceto, il bicchiere che conteneva i cucchiai e persino, in mezzo alla tavola, la donnina di terraglia che conteneva senape, rafano e salsa chili sulla tovaglia a scacchi rossi.

Ricordava una sera d’inverno, quando lui aveva tre o quattro anni. La mamma stava preparando la cena e lui se ne stava seduto in mezzo alla cucina, giocando con alcuni cubi di legno. Fuori soffiava un vento gelido che s’ingolfava per la grondaia e quando il babbo era tornato dalla stalla, una folata di vento aveva portato dentro un mulinello di neve. Ma, una volta richiusa la porta, vento e neve erano rimasti fuori, nelle tenebre di quella gelida notte. Suo padre aveva posato il secchio del latte sull’acquaio ed Enoch aveva notato che aveva la barba e le sopracciglia incrostate di neve, i baffi coperti di ghiaccio.

L’immagine di loro tre riuniti in cucina, nella sera tempestosa, gli era rimasta fissa nella memoria come un gruppo di statue da museo: il padre con la barba bianca di neve e i grandi stivali di feltro che gli arrivavano alle ginocchia, la madre col viso arrossato dalla vampa della stufa, la cuffia di pizzo in testa, e lui, seduto per terra a giocare con i cubi.

Ma c’era una cosa che ricordava meglio di tutto: sul tavolo stava una grossa lampada e alla parete era appeso un calendario, preso in pieno dalla luce. Il calendario raffigurava il vecchio Babbo Natale sulla slitta e gli abitanti del bosco che si voltavano a guardarlo passare. Una luna enorme pendeva sugli alberi e il terreno era coperto di neve. Due conigli, seduti, fissavano Babbo Natale accanto a un daino e un procione, con la folta coda raccolta intorno alle zampe; su un ramo, uno scoiattolo e un uccellino si stringevano uno all’altro. Babbo Natale alzava la frusta in segno di saluto, mentre sulla faccia arrossata la bocca si apriva in un sorriso; le renne che trainavano la slitta avevano un aspetto vispo e riposato.

Per tutti quegli anni, un Babbo Natale che risaliva più o meno alla metà del XIX secolo aveva continuato a guidare la slitta attraverso gl’innevati corridoi del tempo, la frusta levata in un gesto di saluto verso gli animali della foresta. E la lampada d’oro aveva corso con lui, illuminando la parete e la tovaglia a scacchi.

Quindi, pensò Enoch, alcune cose durano nel tempo. Il ricordo, l’esperienza dell’intimo calore della cucina della sua infanzia, in una tempestosa sera d’inverno…

Ma duravano solo nell’animo e nella mente, perché al di fuori niente sopravvive. Cucina e soggiorno non esistevano più, con il divano antiquato e la sedia a dondolo, e lo stesso valeva per il salotto buono ma un po’ rigido, tutto seta e broccato, e la camera degli ospiti al pian terreno, o quelle dei familiari al primo.

Tutto era sparito tranne una stanza; il pavimento del primo piano e le pareti divisorie erano stati eliminati e la casa constava ormai di un unico, enorme locale che da una parte conteneva la stazione galattica e dall’altra l’addetto alla stazione. In un angolo c’erano un letto e una stufa che funzionava secondo un sistema sconosciuto a Enoch, oltre a un frigorifero altrettanto strano. Lungo le pareti si allineavano armadi e scaffali zeppi di riviste, libri e giornali.

Una sola cosa era rimasta, perché Enoch non aveva permesso che la squadra aliena venuta a installare la stazione la portasse via: il massiccio camino in mattoni e pietra locale che troneggiava nell’ex soggiorno. Il camino esisteva ancora ed era l’unico ricordo del passato, l’unico oggetto terrestre dell’ambiente, con la gran mensola di quercia grezza che il padre di Enoch aveva ricavato da un immenso ciocco tagliato con l’accetta grande, e che aveva levigato e piallato con le sue mani.