Sulla mensola, sul tavolo e gli scaffali stavano numerosi oggetti che di terrestre non avevano neppure il nome: l’accumulo di doni che i viaggiatori di passaggio avevano portato in tanti anni. Alcuni erano oggetti utili, altri solo ornamentali; altri ancora erano di scarsa utilità per un appartenente alla razza umana, oppure non potevano essere adoperati sulla Terra. Infine, c’erano regali di cui Enoch non riusciva a immaginare il senso, ma che accettava imbarazzato, balbettando qualche ringraziamento alle creature gentili che li avevano portati.
All’estremità opposta del locale era installato il poderoso e complesso macchinario che raggiungeva l’altezza del primo piano: grazie a esso arrivavano i viaggiatori dello spazio interstellare.
Una locanda, ecco cos’era la sua casa; un posto di transito, un incrocio galattico.
Enoch spinse la sedia contro la scrivania e infilò la giacca che teneva appesa allo schienale. Prese il fucile dal supporto a muro e, ritto davanti alla parete, pronunciò la parola che doveva pronunciare. La parete scivolò su se stessa silenziosamente, ed Enoch passò nel ripostiglio disadorno. Alle sue spalle la sezione scorrevole tornò a posto e non rimase la minima traccia che indicasse un’apertura nella solida parete.
Enoch uscì dal capanno, nella bella giornata di fine estate. Ancora poche settimane e l’aria avrebbe cominciato a rinfrescarsi. Fiorivano le prime dalie selvatiche e il giorno prima aveva notato che alcuni degli astri cresciuti lungo la vecchia staccionata avevano cominciato a sbocciare, in molti colori.
Girò l’angolo della casa, dirigendosi verso il fiume, attraverso il vasto campo in pendenza, dove ciuffi di noccioli e arbusti avevano sostituito le antiche colture.
"Ecco la Terra" pensava Enoch. "Un pianeta creato per l’uomo. Ma non per l’uomo soltanto: è fatto anche per la volpe, per il serpente, per la cavalletta e il pesce. Insomma, per tutte le creature che riempiono il mondo, l’aria e l’acqua. E neppure è stato creato soltanto per le creature che vi sono nate, ma anche per gli esseri che vivono su pianeti lontani anni-luce e che sono fondamentalmente simili alla Terra: per Ulisse, per gli splendenti e per tutti quelli che sono in grado di viverci.
"I nostri orizzonti sono vasti" seguitava a pensare "ma le nostre conoscenze rimangono ristrette. Anche adesso che da Cape Canaveral partono i razzi fiammeggianti destinati a infrangere le antiche barriere, noi ne sappiamo poco."
Il dolore era sempre in lui, il vecchio dolore nato dal desiderio di raccontare all’umanità tutte le cose che aveva imparato. Non certo i particolari, benché alcuni avrebbero potuto essere utili, ma i principi generali, la realtà per niente tecnica, e anzi centrale, per cui esistevano altre creature intelligenti nell’Universo. L’uomo non era solo, e se avesse trovato la sua strada non lo sarebbe stato mai più.
Attraversò il campo e la striscia di bosco, uscì sul costone di roccia sporgente che sovrastava il pendìo davanti al fiume. Come migliaia di altre mattine, rimase a guardare i riflessi azzurro-argentei dell’acqua in mezzo alla piana boscosa.
"Vecchia, antica acqua" disse rivolgendosi silenziosamente al fiume "tu hai visto tutto: ghiacciai enormi formarsi e sciogliersi di nuovo, ritirandosi verso il polo centimetro per centimetro, mentre l’acqua riempiva la valle con un effetto di marea senza precedenti. Tu hai visto il mammuth, la tigre dai denti a sciabola e il castoro grande quanto un orso che vivevano sulle antiche colline e riempivano la notte di urla, clamori; tu hai osservato piccoli gruppi di uomini silenziosi che avanzavano cautamente nei boschi, si arrampicavano per le colline o remavano sulla tua superficie, verso il bosco e verso il largo, deboli nel fisico ma forti nello spirito e tenaci come nessun’altra specie. E prima di loro, un’altra razza di uomini con la testa piena di sogni e le mani capaci di grandi crudeltà, e la tremenda sicurezza di uno scopo nobile nel cuore. E ancor prima, perché questa terra è antica più degli antichi ritrovamenti, altre forme di vita che si sono succedute a seconda dei climi e dei mutamenti cui è andata incontro la Terra. Cosa pensi di tutto questo?" chiese al fiume. "Tuo è il ricordo, tuo l’avvenire, tuo il tempo, e ormai dovresti conoscere la risposta, almeno in parte.
"Anche l’uomo saprebbe rispondere, se fosse vissuto milioni di anni fino a questa calda giornata d’estate. E io potrei essere d’aiuto all’umanità. Non saprei dare le risposte, ma potrei aiutarla nella sua affannosa ricerca. Potrei darle fede, speranza e un nuovo scopo."
Ma sapeva che non avrebbe osato.
In basso, un falco si librava in ampi cerchi sul nastro del fiume e l’aria era così limpida che Enoch immaginò, aguzzando la vista, di poter vedere ogni penna di cui erano composte le ali distese.
Il luogo gli pareva immerso in un incantesimo. Il panorama sconfinato, l’aria limpida e il senso di distacco sconfinavano nel sublime, come in uno di quei posti speciali che ogni uomo deve cercare da sé e ritenersi fortunato se lo trova, perché ci sono quelli che cercano senza trovare. E ci sono quelli, ancora più sfortunati, che non si mettono neppure alla ricerca.
In piedi sul masso continuò a guardare il fiume, il falco che volava pigro sulla superficie dell’acqua e il verde manto dei boschi, finché la sua mente si innalzò verso altri luoghi lontani e speciali, e ne ebbe le vertigini. Ma era casa sua.
Si voltò lentamente, scese dal masso e s’inoltrò fra gli alberi, seguendo il sentiero che lui stesso aveva aperto, passando di lì per anni.
Mentre scendeva il pendìo, pensò a come avrebbe potuto proteggere il ciuffo di violaciocche che sarebbe rifiorito a giugno, ma concluse che era inutile preoccuparsi: era nascosto in un punto isolato e non correva alcun pericolo. Cent’anni prima le violaciocche fiorivano ovunque, in collina, e lui ne coglieva a bracciate per portarle a sua madre che le sistemava in una gran brocca; per un paio di giorni la casa era piena del loro buon profumo. Adesso era difficile trovarle, perché gli animali da pascolo e la gente che ne andava in cerca avevano finito per sterminarle.
Un giorno, si ripromise Enoch, prima che cominciassero le gelate sarebbe andato a vederle, per assicurarsi che in primavera ce ne fossero ancora.
Si fermò un poco a guardare uno scoiattolo che giocava su una quercia; si chinò per seguire una lumaca che attraversava il sentiero e osservò i disegni del muschio cresciuto sul tronco di un grosso albero, mentre un uccello volava silenzioso di ramo in ramo.
Uscito dal bosco camminò lungo il margine del campo finché arrivò alla sorgente che scaturiva dal fianco della collina. Seduta vicino alla sorgente c’era una donna, Lucy Fisher, la figlia sordomuta di Hank Fisher che abitava laggiù in riva al fiume.
Enoch si fermò a guardarla e pensò come fosse piena di grazia e bellezza, la naturale grazia e bellezza di una creatura primitiva e solitaria.
La ragazza se ne stava vicino alla sorgente e teneva alzata una mano dalle dita lunghe e affusolate, su cui era appoggiato qualcosa che splendeva di colori. Lucy aveva la testa ritta e sembrava un po’ tesa, come all’erta; il corpo snello ed eretto tradiva la stessa tensione, un discreto stare in guardia.
Enoch si avvicinò lentamente e quando fu a non più di un metro vide che sulle dita della ragazza poggiava una delle bellissime farfalle rosse e dorate che arrivano alla fine dell’estate. L’insetto teneva un’ala dritta, ma l’altra sembrava rotta e aveva perduto in parte la polvere sottile che ne faceva splendere il colore.
Ma Lucy non stringeva la farfalla, si rese conto Enoch; le si era semplicemente posata sulle dita, facendo fluttuare l’ala sana per tenersi in equilibrio.