Poi guardò meglio: l’altra ala non era rotta, solo ripiegata e accartocciata in modo insolito. Enoch la vide stendersi e notò che il pulviscolo colorato, se mai era scomparso, tornava a risplendere. L’insetto ricongiunse le ali e lui avanzò di qualche passo per farsi vedere. Quando Lucy si accorse della sua presenza non trasalì: un fatto abbastanza naturale, pensò Enoch, perché era abituata a veder comparire la gente senza preavviso.
Aveva gli occhi scintillanti e un’espressione di beatitudine, come se avesse vissuto un’estasi spirituale. Enoch si domandò, come sempre quando la vedeva, come fosse vivere in un mondo due volte silenzioso, un mondo col quale era impossibile comunicare. O forse non proprio impossibile, ma che certo la escludeva dal flusso di comunicazione cui hanno diritto l’essere umano e animale.
Come Enoch sapeva, avevano tentato più volte di farle seguire i corsi di una scuola per sordomuti, ma inutilmente. Una volta Lucy era scappata e aveva vagato per giorni prima che la trovassero e la riportassero a casa; un’altra volta si era fermamente rifiutata di ubbidire e di seguire gli insegnamenti dei maestri.
Guardandola con la sua farfalla, Enoch credette di capirne il motivo. Aveva un mondo tutto suo, cui si era abituata e in cui sapeva come comportarsi. In quel mondo non era una minorata, come invece sarebbe stata nella normale società degli uomini.
A che le sarebbe servito imparare l’alfabeto o saper leggere le labbra degli altri, se questo le avesse tolto la sua misteriosa serenità di spirito?
Lucy era una creatura dei boschi e delle colline, dei fiori primaverili e degli uccelli che migrano in autunno. Conosceva queste cose, viveva insieme a loro e in un certo senso ne faceva parte. E viveva da sola in un vecchio appartamento sperduto del mondo naturale, occupando un posto che l’uomo aveva abbandonato da tempo, se pure l’aveva mai conosciuto.
Se ne stava con la sua farfalla rossa e d’oro posata sulle dita, con un senso di attenzione speciale, aspettativa e forse di soddisfazione dipinta in faccia. Era viva, pensò Enoch, come nessun’altra creatura era stata viva.
La farfalla tese le ali e si staccò dalle dita della ragazza, volando leggera e senza preoccupazioni sull’erba incolta e i fiori gialli del campo.
Lucy si girò per seguirla con gli occhi, finché scomparve sulla sommità della collina dove il vecchio campo si arrampicava. Poi si rivolse a Enoch e sorrise, agitando le mani come le ali rosse e dorate della farfalla: ma nel gesto c’era qualcos’altro, un’espressione di felicità e benessere per dire che il mondo era bello.
"Se potessi insegnarle la pasimologia dei miei amici galattici" pensò Enoch "potremmo parlare quasi come se usassimo le parole della lingua umana." Avendone il tempo non sarebbe stato difficile, perché il linguaggio galattico dei gesti seguiva uno schema logico e naturale che lo rendeva istintivo non appena se n’era afferrato il principio fondamentale.
Anche sulla Terra, ai primordi, l’uomo si era espresso a gesti. Il più sviluppato di quei sistemi apparteneva agli aborigeni dell’America settentrionale, gli amerindi, che riuscivano a farsi capire da molte tribù di lingua diversa.
Ma persino il linguaggio dei segni indiano non era che una gruccia alla quale l’uomo si appoggiava quando non poteva correre, mentre quello galattico era una vera e propria lingua, adattabile a diversi mezzi e sistemi di espressione. Era venuto elaborandosi per millenni, con il contributo dei popoli più diversi, e si era affinato, snellito e perfezionato attraverso i secoli, fino a diventare uno strumento di comunicazione che veniva apprezzato per i suoi meriti intrinseci.
Ormai era un mezzo indispensabile, perché la galassia era una babele. Neppure la scienza della pasimologia poteva superare tutti gli ostacoli e garantire, in certi casi, una minima base di reciproca comprensione; non solo esistevano milioni di lingue, ma alcune non si esprimevano in suoni, perché vi erano razze incapaci di emetterne. D’altra parte, nemmeno il suono serviva a molto quando una razza comunicava per mezzo di ultrasuoni che gli altri non riuscivano a captare. Naturalmente esisteva la telepatia: ma per ogni specie telepatica ce n’erano mille in cui tale funzione era bloccata. C’erano razze che comunicavano solo a gesti, altre invece mediante ideogrammi, fra cui alcune che avevano una lavagna chimica inserita nel corpo. E c’era una misteriosa razza cieca, sorda e muta che viveva nelle stelle sconosciute ai margini della galassia: il suo sistema di comunicazione era forse il più complesso e si valeva di segnali in codice trasmessi direttamente dal sistema nervoso.
Enoch faceva quel lavoro da cento anni, si serviva del linguaggio universale e del traduttore semantico (attrezzatura pietosa anche se complicatissima); eppure, a volte non riusciva a capire quello che i visitatori dicevano.
Lucy Fisher raccolse una tazza di scorza di betulla che aveva posato al suo fianco, l’immerse nella sorgente e la porse a Enoch che si avvicinò, inginocchiandosi a bere. La tazza non era del tutto impermeabile, perdeva un rivoletto d’acqua che gli bagnò il polso della camicia e la giacca.
Quando ebbe finito di bere, Enoch restituì la scodella. Lei la prese con una mano e allungò l’altra in una lieve carezza sulla fronte dell’uomo, pensando forse di benedirlo.
Lui non disse niente. Aveva smesso da tempo di parlarle, intuendo che i movimenti della bocca, da cui uscivano suoni che la ragazza non poteva sentire, la mettevano in imbarazzo.
Piuttosto, allungò una mano e appoggiò il largo palmo sulla guancia di Lucy, lasciandovelo per un rassicurante momento. Un gesto d’affetto, poi si alzò e rimase a guardarla; per un momento si fissarono reciprocamente negli occhi, quindi Enoch riprese il cammino.
Attraversò il ruscello che scendeva dalla sorgente, seguì la pista che portava dall’orlo del bosco al crinale della collina, attraverso il campo. A metà pendio si fermò per voltarsi a guardarla e vide che anche Lucy lo fissava. Alzò una mano in un gesto di saluto e lei rispose allo stesso modo.
Ricordava di averla vista per la prima volta circa dodici anni prima. Era una creatura selvatica di non più di dieci anni, una creatura che correva nei boschi come le fate. Erano diventati amici diverso tempo dopo, sebbene l’incontrasse spesso perché lei vagava nel bosco e la valle come se fossero il suo campo di giochi: il che, a pensarci bene, era vero.
L’aveva vista crescere anno per anno, incontrandola nel corso delle sue quotidiane passeggiate, e fra loro era nata la comprensione che può stabilirsi soltanto fra chi vive ai margini del mondo e chi è solo. Ma l’intesa reciproca si basava anche su qualcos’altro: sul fatto che ciascuno avesse un suo mondo, grazie al quale vedeva cose che gli altri ignoravano. Nessuno dei due aveva mai accennato al proprio mondo interiore, ma sapeva che l’altro ne possedeva uno e questo era un solido fondamento per il nascere dell’amicizia.
Enoch ripensò al giorno in cui l’aveva trovata inginocchiata vicino alle violaciocche in fiore, in muta contemplazione; e ricordò di essersi fermato, felice che non facesse il gesto di coglierle, consapevole che nel guardarle avevano trovato tutti e due soddisfazione e appagamento senza desiderio di possesso.
Raggiunta la cima del colle, Enoch imboccò la strada coperta d’erba che portava alla cassetta della posta.
Ripensandoci, si convinse che la sua prima impressione non fosse sbagliata, anche se poi era sembrato che le cose stessero diversamente. L’ala della farfalla era veramente rotta e opaca, e l’insetto non poteva volare. Eppure, un attimo dopo era tornata intatta e la farfalla aveva ripreso la sua strada.
8
Winslowe Grant era puntuale.
Enoch era appena arrivato alla cassetta delle lettere, quando vide sul crinale della collina la nuvola di polvere sollevata dal vecchio macinino del portalettere. Fermo accanto alla cassetta, pensò che era stato un anno di polvere: era piovuto poco e i raccolti ne avevano sofferto, anche se, a dire la verità, nella zona c’erano ben pochi terreni coltivati. Un tempo c’erano numerose piccole e fiorenti fattorie, quasi ammassate lungo la strada, i granai dipinti in rosso e le case bianche. Ma la maggior parte era stata abbandonata e le costruzioni non erano più né bianche né rosse, ma grigie e sconnesse per gli anni e le intemperie. La vernice era scrostata, gli steccati erano cadenti e la gente se n’era andata.