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Barrett diede un’ultima controllata al Reversore, poi si volse verso sua moglie.

«È pronto» disse.

Ella avrebbe voluto, in quel momento, condividere l’emozione che lui, senz’altro, provava. «Lo so che questo è un momento importante per te» disse.

«Importante per la scienza.» Si chinò sul Reversore. Ne aggiustò il segnatempo, girò alcune manopole, poi, dopo una breve esitazione, abbassò la leva dell’interruttore.

Per alcuni istanti, Edith pensò che non accadesse nulla. Poi udì un ronzio, sordo ma distintamente percettibile, all’interno dell’enorme apparecchio, e sentì tremare il pavimento sotto i suoi piedi.

Guardava fisso il Reversore. Il ronzio salì d’intensità, le vibrazioni del pavimento si fecero più forti: e le salivano su, per le gambe, su su, per tutto il corpo. Corrente di energia, pensò: l’unica cosa che potesse contrastare l’energia della casa. Lei non capiva cosa fosse ma, avvertendone il pulsare attraverso il proprio corpo, sentendo quel ronzio percuoterle i timpani, cominciò a esser quasi convinta della sua validità.

Fissava il Reversore e vide, dietro la griglia frontale, accendersi alcune valvole e tubi fosforescenti brillare intensamente. Barrett si ritrasse. Le dita gli tremavano, tirò fuori l’orologio. Mezzogiorno spaccato. Precisione estrema, pensò. Rimise l’orologio nel taschino e si rivolse a Edith. «Dobbiamo andare.»

I loro soprabiti erano su un tavolino accanto alla porta, ce li aveva messi Barrett poco prima. Aiutò Edith a infilarsi il suo. Poi Edith aiutò lui. E si volse a guardare verso il salone. Il ronzio del Reversore si era fatto acuto, e anche da quella distanza dava fastidio alle orecchie. Il pavimento vibrava sotto i loro piedi. Un vaso traballava sulla sua mensola. «Svelta» disse Barrett.

Di lì a pochi istanti erano all’aperto, e procedevano spediti lungo il sentiero ghiaiato, aggirando lo stagno, ma anche di là si udiva il ronzio del Reversore, smorzato. Attraversarono il ponticello. Nella nebbia apparve la Cadillac. Edith provò una stretta, al pensiero che c’era Florence, lì dentro.

Barrett aprì lo sportello posteriore. Diede un balzo, vedendo Fischer seduto accanto al cadavere avvolto da una coperta. E gli cingeva le spalle con un braccio, come se lo cullasse. «Le dispiace…» cominciò Barrett, ma si interruppe quando l’altro lo guardò con occhi ardenti. Esitò, poi richiuse lo sportello. Inutile cercare di spostarlo di là. Era troppo sconvolto.

«Ma la tiene lì dentro con lui?» bisbigliò Edith.

«Sì.»

Edith era sgomenta. «Non mi posso mica sedere accanto…» Non poté terminare la frase.

«Sediamoci davanti.»

«Non potremmo tornare in casa, piuttosto?» domandò lei, pur rendendosi conto ch’era grottesco, proporre di tornare dentro la Casa d’Inferno.

«No, assolutamente. Le radiazioni ci ucciderebbero.»

Ella lo guardò. «Va bene» disse alla fine.

Salirono in macchina, davanti, e chiusero gli sportelli. Barrett guardò nello specchietto retrovisore. Fischer stava chino sulla salma di Florence, col mento posato su quella che doveva essere la testa della morta. Barrett si chiese fino a che punto era rimasto sconvolto, il pover’uomo.

Poi, ricordando, si rivolse a Edith e le disse: «Deutsch è morto».

Edith non rispose lì per lì. Poi disse: «Non importa».

Barrett allora si sentì, inaspettatamente, avvampare di rabbia. Come, non importava? Distolse lo sguardo. Perché darsi pensiero, allora, per lei? Lui aveva fatto del suo meglio per provvedere al suo futuro. Ma, dal momento che a lei non importava…

Ma col ragionamento scacciò via la propria rabbia. Sì: che cos’altro poteva dirgli?

Si raddrizzò, con una smorfia pel dolore al pollice, e si voltò. «Ah, lo sa, Fischer?»

Fischer non alzò nemmeno gli occhi.

«Deutsch è morto. E suo figlio non ci paga.»

«Che differenza fa?» borbottò Fischer. Le sue dita si serrarono intorno alla spalla di Florence Tanner.

Barrett si rigirò ed estrasse di tasca un mazzetto di chiavi. Scelse quella d’accensione e l’infilò nella sua fessura. Girò la chiave quanto basta per attivare le lancette dei quadranti senza avviare il motore. Non c’era abbastanza benzina per far andare il motore per quaranta minuti, in modo da tener caldo l’interno della vettura. Mannaggia, pensò. Avrebbe dovuto provvedere a portare un maggior numero di coperte dalla casa. Un po’ di brandy.

Reclinò la testa all’indietro, chiuse gli occhi. Bisognava sopportare il freddo, ecco tutto. Personalmente, a lui non importava: era un momento troppo importante per lui, quello, perché qualsiasi altra cosa contasse.

Dietro quelle mura senza finestre, a qualche centinaio di metri di lì, la Casa d’Inferno stava morendo.

ore 12.45

Barrett richiuse il coperchio del suo orologio, di scatto, e disse: «È fatta».

Il volto di Edith restò privo di espressione. Barrett si sentì deluso, per l’indifferenza di sua moglie; ma poi si rese conto che Edith non era in grado di capire quel che era accaduto all’interno della casa. Le carezzò una mano, poi si volse. «Dica, Fischer.»

Fischer stava ancora accasciato sopra Florence, tenendo il suo corpo inanimato stretto a lui. Alzò gli occhi lentamente.

«Lei torna dentro con noi?»

Fischer non rispose.

«La casa adesso è ripulita.»

«Dice?»

Barrett aveva voglia di sorridere. Non poteva biasimarlo, naturalmente. La sua asserzione poteva suonare presuntuosa, d’accordo, dopo quel che era accaduto nei giorni scorsi. «Vorrei che lei venisse con me» disse.

«Per che fare?»

«Per constatare che la casa è ripulita.»

«E se non lo fosse?»

«Le garantisco io che lo è.» Barrett attese che Fischer prendesse una decisione. Non successe nulla. E allora disse: «Ci sbrighiamo in pochi minuti».

Fischer lo guardò fisso, in silenzio, ancora per qualche istante, poi si staccò da Florence. Inginocchiatosi, adagiò con cura il cadavere sul sedile. Stette ancora a contemplarla per qualche momento, poi scese a terra.

I due uomini si portarono davanti all’automobile. Déjà vu, pensò Edith. Era come se il tempo fosse tornato indietro ed essi stessero ora per entrare nella Casa d’Inferno per la prima volta. Solo l’assenza di Florence impediva all’illusione di essere completa. Edith rabbrividì, si alzò il bavero del cappotto. Era intirizzita. Lionel aveva acceso il motore e azionato il riscaldamento per brevi perìodi, di tanto in tanto, durante l’attesa, ma, una volta spento il motore, il freddo non tardava a tornare.

La camminata fino alla casa le fece ripensare al loro arrivo lì. Come allora i loro passi risuonarono sul ponticello. Come allora ella si volse a osservare l’automobile inghiottita dalla nebbia; e, girando intorno allo stagno, il suo fetore tornò a ferirle le narici; riudì la ghiaia strìdere sotto le scarpe; provò la stessa sensazione di freddo, all’apparire del massiccio edifìcio.

Inutile. Non riusciva proprio a credere che Lionel avesse ragione. Il che stava a significare che adesso sarebbero andati a rinchiudersi in una trappola. Ne erano usciti in qualche modo… tre su quattro perlomeno. Ed ecco che adesso ci tornavano, incredibile. Era una follia suicida, la loro. Come potevano illudersi che il Reversore avesse funzionato?

Eccoli percorrere gli ultimi metri. Eccoli salire i gradini del portico. Ecco la porta d’ingresso di fronte a loro. Edith rabbrividì. No, pensò, io non ci torno, lì dentro.

Ma, quando Barrett ebbe aperto la porta, ella entrò di nuovo, senza una parola, nella Casa d’Inferno.

Barrett richiuse la porta. Edith notò che il vaso era caduto in terra, andando in frantumi.

Barrett guardò Fischer interrogativamente.

«Non so» disse Fischer.

Barrett si tese. «Lei deve aprirsi» disse. Possibile che a Fischer non restasse neppure un’ombra di percezione extrasensoriale? L’idea che occorresse far venire un altro medium psichico per i necessari controlli lo sgomentava.