Alla fine spense l’apparecchio. Siamo a zero, pensò. E si chiese perché mai fosse tornato, come Don Chisciotte contro i mulini a vento… Roba da matti.
Si alzò. Ma non sarebbe andato via. Voleva venirne a capo. Doveva succedere qualcosa. Doveva esserci una soluzione. Decise di fare un altro giro per la casa. Avrebbe perlustrato ogni angolino, finché non avesse trovato qualche indizio, qualche barlume. La casa era inerte, spenta, eppure da qualche parte doveva esserci qualcosa di vivo, di acceso, di abbastanza potente da uccidere.
L’avrebbe trovato, a costo d’impiegarci un anno.
Attraversò il salone. Aveva cominciato ad aprirsi. Non pareva ci fosse alcun rischio, pel momento. Ma non pareva neanche esserci alcuno scopo, ad aprirsi. Ma doveva pure agire.
Aveva appena finito di abbattere le barriere protettive dell’io, quando qualcosa lo spinse. Si trovava nel vestibolo e quell’improvviso spintone lo fece quasi cadere a terra. Barcollò. Istintivamente portò le braccia conserte. Si preparò a resistere.
Non accadde altro. Fischer si aggrondò. Doveva tornare ad aprirsi. Alla fine, qualcosa di tangibile. Ma ne era stato colto alla sprovvista. Non osava ora esporsi come si era esposto il giorno avanti.
Esitava. Sentiva la presenza misteriosa aleggiare intorno a lui. Desiderava affrontarla ma aveva paura.
Finalmente, maledicendo la propria debolezza, si aprì.
Subito qualcosa l’afferrò per un braccio e lo sospinse in direzione del corridoio. Fischer riuscì a fermarsi. Abbassò le braccia che aveva portato istintivamente in posizione di “guardia” per proteggersi il plesso solare. Ma bisognava smetterla, pensò, di aprirsi e chiudersi di continuo come una maledetta conchiglia spaurita!
Apri uno spiraglio della sua porta interiore, quanto bastava perché la presenza si infilasse dentro. Di nuovo si sentì sospinto verso il corridoio. Era come se mani invisibili lo tirassero da quella parte per la manica. Egli allora seguì la sua guida, stupito dalla delicatezza dell’invito. Non si trattava certo di una forza oscura e distruttiva, stavolta. Era come una vecchia zia che lo conducesse per mano a far merenda. A Fischer venne quasi da sorridere: c’era dell’insistenza, sì, ma non c’era una minaccia. E gli venne fatto di pensare a Florence. Ella era sempre stata certa che la soluzione dell’enigma si trovasse nella cappella. Fischer provò un moto di intensa gioia. Florence era venuta in suo aiuto! Spinse la porta, entrò.
La cappella era immersa in una quiete oppressiva. Fischer si guardò intorno come se si aspettasse di vedere Florence. Non c’era niente.
L’altare.
Questa parola gli balenò nella mente, con estrema chiarezza come se qualcuno l’avesse pronunciata ad alta voce. Attraversò la navata, scavalcando il gatto morto, il crocefisso abbattuto. Giunse all’altare. Osservò la Bibbia aperta. Lesse, sotto la dicitura NASCITE : «Daniel Myron Belasco, nato alle ore 2 del mattino il 4 ottobre 1903». Si sentì deluso. Non era questa la risposta. Non poteva essere questa.
D’un tratto le pagine della Bibbia cominciarono a scorrere, come per effetto di un vento che le voltasse, in fretta. Si arrestarono d’un tratto. Fischer guardò. Ma quale versetto avrebbe dovuto leggervi? Allora la sua mano fu guidata e il suo indice si posò su una riga. Egli si chinò e lesse:
«Se il tuo occhio destro ti offende, tu cavatelo».
Rilesse quelle parole. Gli pareva che Florence stesse lì accanto a lui, ansiosa, impaziente. Ma non riusciva a capire il senso riposto di quelle parole.
«Florence…» incominciò.
Sollevò la testa di scatto, udendo un rumore dietro l’altare.
Si era strappato un pezzo di carta della tappezzeria, rivelando l’intonaco sottostante.
Fischer sentì il medaglione scottargli il petto e non poté trattenere un’esclamazione. Infilò una mano sotto la camicia, se lo strappò dal collo, lo gettò via, con un mugolio di dolore. Il medaglione andò in frantumi sul pavimento. Fischer lo fissò perplesso. Uno dei frammenti pareva la punta di una freccia e sembrava indicare verso…
Si abbatté su di lui come un’onda improvvisa di marea, accompagnata da un muggito terribile.
La potenza nemica lo percosse con estrema violenza, egli lanciò un grido di terrore, cadendo all’indietro sul pavimento, e la nube di tenebra lo ricoprì. Non poté opporre alcuna resistenza. Giacque inerte e sentiva l’oscura e nera forza penetrargli in ogni fibra, scorrere nelle sue vene. Adesso! ululò una voce nella sua mente, trionfante.
E a un tratto capì qual era la soluzione, come già l’avevano capito Florence e Barrett prima di lui, ma si rese anche conto che essa gli veniva rivelata solo perché si trovava in punto di morte.
Non si mosse, non batté gli occhi, giacque immobile come un corpo morto per chissà quanto tempo.
Poi, pian piano, si alzò e scivolò verso la porta. L’aprì, sgusciò nel corridoio. Si diresse verso il vestibolo. Andò alla porta d’ingresso, l’aprì, usci all’aperto. Discese i gradini. S’incamminò per il viale ghiaiato. Guardava fisso innanzi a sé. Giunse sull’orlo dello stagno. Seguitò ad avanzare. Entrò nell’acqua puzzolente, densa. L’acqua gli arrivava al ginocchio.
Gli parve di udire un grido in lontananza. Batté gli occhi. Seguitò a camminare. Qualcosa entrò nell’acqua con un tonfo, qualcosa lo afferrò per il maglione, cercò di trattenerlo. Egli sentì le budella torcerglisi, si sentì un amaro in bocca. Ansava. Tentò di buttarsi a capofitto nell’acqua dello stagno. Qualcosa tentò di trascinarlo invece verso la riva. Fischer, gemendo, si divincolò. Due mani fredde allora lo afferrarono pel collo. Egli cercò di liberarsi dalla stretta, ringhiando. Le budella gli si torsero, si piegò su se stesso, cadde in ginocchio nell’acqua. Schizzi gelati gli inondarono la faccia. Fischer scosse la testa e cercò di alzarsi in piedi, per procedere oltre. Ma quelle mani seguitavano a tirarlo indietro. Guardò su e vide, come attraverso un velo di gelatina, una faccia pallida, dai lineamenti distorti. Le sue labbra si muovevano, ma lui non riusciva ad afferrare niente. Guardava fisso, abbacinato. Doveva morire. Questo lo sapeva con estrema chiarezza.
Belasco glielo aveva detto.
ore 19.58
Da mezz’ora Fischer stava raggomitolato in un canto del sedile, con la faccia pallida come di gesso, i denti che gli battevano, le braccia incrociate sullo stomaco, gli occhi sbarrati nel vuoto. Tremava per tutto il corpo, sicché la coperta seguitava a scivolargli giù dalle spalle. Edith doveva tornare ad avvolgergliela intorno di continuo. Fischer non dava alcun segno di accorgersi delle sue premure. Era come se lei fosse invisibile.
Edith aveva durato fatica a ritirarlo fuori da quello stagno, aveva lottato contro la sua cieca volontà suicida per chissà quanto tempo. Per fortuna, lui era venuto progressivamente perdendo le forze. Tuttavia aveva seguitato a resistere, cocciuto, deciso ad annegarsi, a non farsi trarre in salvo. Le sue suppliche erano state vane. Lui, senza profferire una parola, si era battuto accanitamente. Tirandolo per i vestiti, per i capelli, Edith era riuscita a impedirgli di andar sotto. Alla fine le forze di lui erano venute meno. A questo punto, Edith era fradicia al pari di lui, con brividi per tutto il corpo.
Adesso si trovavano dentro la Cadillac. Lei aveva acceso il riscaldamento. C’era un po’ di tepore. Controllò l’indicatore della benzina: il serbatoio era pieno per metà. Ma il caldo non aveva rianimato Fischer, né aveva ancora fatto cessare i suoi brividi convulsi. Non era solo per il freddo, ragionò lei. Lo guardò, i suoi lineamenti erano sconvolti. E allora pensò: il cerchio si chiude.
Anche questo tentativo di risolvere l’enigma della Casa d’Inferno si era risolto in un fallimento.