«Uh-uh» disse Fischer. Florence lo guardò.
Presero a discendere le scale ch’erano dirimpetto alla cappella. Fischer dirigeva il raggio della torcia ai loro piedi. «Chissà se avremo bisogno di un’intera settimana» disse Florence.
«Un intero anno non basterebbe.»
Florence cercò di mitigare il suo tono polemico. «Ma se ho visto risolvere i più astnisi problemi psichici da un giorno all’altro, io! Non dobbiamo…» S’interruppe, le sue dita si aggrapparono alla balaustra. «Questa maledetta fogna!» pronunciò a denti stretti, con voce alterata, selvaggia. Qualcosa passò attraverso il suo corpo, scuotendolo tutto. «Oh, Dio. Quanta ferocia! Quanta furia distruttiva!» Il suo respiro ansava lievemente. «Un uomo velenoso, molto ostile» disse. «Non fa meraviglia. Sfido io, a essere incarcerato in questa casa!» Guardò Fischer.
Scesi nel seminterrato, percorsero un corridoio e giunsero a una porta a vento con spioncini a oblò. Fischer passò per primo e tenne il battente aperto per Florence. Era il locale della piscina. I loro passi risuonarono sul pavimento di piastrelle e il soffitto ne rimandò il rimbombo.
La piscina era di dimensioni olimpioniche. Fischer diresse il raggio della torcia sull’acqua verde cupo. Si portò sul bordo e, inginocchiatosi, si rimboccò una manica del maglione. Tuffò una mano nell’acqua. «Non è mica tanto fredda» disse, sorpreso. Tastò intorno. «E l’acqua arriva. Dev’essere che l’impianto, qui, è collegato a un generatore a parte.»
Florence guardò la superficie della piscina. I cerchi provocati da Fischer si allargavano sullo specchio d’acqua. «Qui c’è qualcosa» disse. Non guardava dalla parte di Fischer, non gli chiedeva una conferma.
«Il bagno turco dev’essere da quella parte» disse l’uomo, tornando accanto a lei.
«Diamo un’occhiata.»
I loro passi lungo il bordo della vasca echeggiarono in modo tale che sembrava che qualcuno li pedinasse. Florence si guardò alle spalle. «Sì» mormorò, senza accorgersi di aver parlato.
Fischer spinse il pesante battente e, tenendolo socchiuso, diresse il raggio della torcia nella stanza accanto. Era un vano quadrato, di quattro metri per lato, con le pareti e il soffitto rivestiti di piastrelle bianche, come il pavimento. Addossate alle pareti c’erano panche di legno. Sul pavimento, simile a un serpente pietrificato, c’era un tubo di gomma, le cui spire terminavano in una presa d’acqua.
Florence fece una smorfia. «Quel pervertito» disse. «Là dentro…» Inghiottì saliva, come se avesse avuto qualcosa di amaro in gola. «Là dentro» ripeté più distintamente. «Ma che cosa? che cosa?»
Fischer lasciò il battente e questo si richiuse, con un tonfo che echeggiò in modo lugubre. Florence lo guardò. Egli si volse e la donna lo seguì. Camminarono fianco a fianco. «Il dottor Barrett ha una bella attrezzatura, non trova?» disse la donna, cercando di sollevare l’umore del compagno. «Però è strano pensare che uno come lui ritenga di poter debellare questa casa con l’aiuto della scienza soltanto.»
«E che cosa ci vuole d’altro?»
«L’amore» ella rispose. Gli strinse il braccio. «Noi lo sappiamo questo, non è vero?»
Fischer tenne aperto il battente della porta a vento, per lei. Uscirono sul corridoio. Attraversatolo, Florence aprì una porta di legno. «Che cosa c’è qui dentro?»
Fischer ne esplorò l’interno con la torcia. Era una cantina, ma vuota, né botti né bottiglie sugli scaffali. Florence fece una Smorfia. «Eppure vedo questa cantina piena di bottiglie di vino.» Si volse. «Non entriamo.»
Tornarono alle scale e risalirono a pianterreno. Quando passarono davanti alla cappella, Florence rabbrividì. «Quello è il posto peggiore di tutti» disse. «Anche se non ho visitato ancora tutta la casa, ho la netta sensazione…» La voce le mancò. Si schiarì la gola. «Intendo entrare là dentro,» disse «e ci entrerò.»
Voltarono per un altro corridoio. Sulla parete destra si apriva un’arcata, una ventina di passi più avanti. «E qui che cosa abbiamo?» Florence varcò l’arcata, e rimase a bocca aperta. «Che casa!» esclamò.
Era una sala da ballo, immensa, dalle pareti altissime rivestite di drappi di velluto rosso. Dal soffitto pendevano tre enormi lampadari. Il soffitto era a cassettoni. Il pavimento era di rovere, un parquet dal disegno elaborato. Su un lato della sala c’era una spaziosa nicchia per l’orchestra.
«Un teatro va bene, ma questa?» disse Florence. «Come può una sala da ballo essere un luogo di perdizione?»
«Può esserlo e come» disse Fischer. «Se sapesse!»
Florence scosse il capo. «Non sarà facile» mormorò fra sé. Poi guardò Fischer. «Sì, credo che lei abbia ragione. Ci vorrà parecchio tempo. Mi pare di trovarmi al centro di un labirinto, così intricato, così diabolico, che per venirne fuori…» Si riprese. «Ma ne verremo fuori, tuttavia.»
Da sopra le loro teste si udì un rumore, un tintinnio. Fischer puntò la torcia verso il pesante lampadario di cristallo. I suoi pendagli riflessero la luce screziandola nei vari colori dell’iride. Il lampadario era immobile.
«La sfida è raccolta» bisbigliò Florence.
«Non sia troppo precipitosa» l’ammonì Fischer.
Florence lo guardò, d’un tratto. «Lei oppone resistenza» disse.
«Che cosa?»
«Lei si oppone, e le blocca! Ecco perché non percepisce le cose che percepisco io.»
Fischer ebbe un freddo sorriso. «Non le ho percepite perché, semplicemente, non c’erano. Ero anche un medium spiritualista, io, non se lo scordi. Lo so che voialtri trovate qualcosa a ogni piè sospinto, se vi va.»
«Ben, non è vero quel che dice.» Florence era mortificata. «Quelle cose c’erano e come. E anche lei le avrebbe percepite, se non avesse ostruito…»
«Io non ostruisco un bel niente» l’interruppe lui. «Solo non voglio picchiare la testa contro il muro una seconda volta. Quando venni qui la prima volta, ero anch’io come lei… No, ero peggio. Molto peggio di lei. Credevo di essere qualcuno. Mi credevo un fenomeno di ricettività psichica.»
«Lei era il miglior medium fisico che il nostro paese abbia mai avuto, Ben.»
«E lo sono tuttora, Florence. Solo che adesso ci vado un po’ più cauto, ecco tutto. Le suggerisco di regolarsi allo stesso modo mio. Lei va in giro per la casa, mi scusi, con i nervi allo scoperto. E quando s’imbatterà sul serio in qualcosa che farà? andrà in pezzi? Non per niente si chiama la Casa d’Inferno, questa qui. E intende ucciderci tutti, dal primo all’ultimo, sicché è meglio che lei impari a proteggersi, perdio, finché non sarà pronta per lo scontro. O vuole allungare la lista delle vittime di questa casa?»
Si scambiarono una lunga occhiata, in silenzio. Poi ella gli toccò una mano. «“Ma colui che sotterra il suo talento…”» cominciò, citando dal Vangelo.
«Stupidaggini!» Girando sui tacchi, si allontanò da lei.
ore 18.42
La sala da pranzo misurava una trentina di metri in lunghezza ed era larga e alta una decina. Vi immettevano due ingressi: l’arcata comunicante con il salone e una porta a vento che comunicava con la cucina.
Il soffitto era a cassettoni, dai fregi elaborati, e il pavimento di marmo lucido. Alle pareti c’erano pannelli di legno fino a un’altezza di tre metri, il resto era di pietra in blocchi squadrati. Al centro della parete ovest c’era un gigantesco caminetto, la cui cappa stile gotico arrivava fino al soffitto. Il centro della stanza era occupato da una tavola lunga dieci metri e sopra di essa pendevano quattro lampadari stile santuario, a intervalli regolari. Intorno al tavolo erano disposte trenta sedie, tutte in rovere antico, con imbottitura di velluto rosso vinaccia.