La donna aveva l’aria sconvolta. «Mi dispiace. Non è stato carino da parte mia. Solo che costituite una tale novità! Io sono Rinee Bohanian, della Agroponica Bohanian.» Indicò con un gesto della mano il lato illuminato dell’asteroide, alle loro spalle. «Azienda di famiglia, capite!»
«Wadie Abdhiamal» aggiunse l’uomo, con un leggero cenno del capo. «Lavoro per la Demarchia.»
«Non lavoriamo tutti per la Demarchia?» domandò la donna.
«Io sono un funzionario governativo.»
L’altra lo guardò con un’aria sospettosa che sconfinava nell’antipatia. «Bene.» Poi tornò a fissare Betha. «E lei come si chiama? Sa, mi piacerebbe dare un’occhiata a una spaziale in carne e ossa…»
«Betha Torgussen. Mi dispiace, ma il mio casco è rotto.» Incrociò le dita, e nessuno se ne mostrò sorpreso. «E lui è…»
«Shadow Jack» la interruppe l’interessato. «Sono un pirata.»
«Pilota» lo corresse irritata Betha., ma gli altri si misero a ridere.
«È il nome di un Materialista.» L’uomo stava squadrando Shadow Jack. «Da molto tempo non ne incontro più uno.»
«Su Lansing lo sono tutti. Ma è solo un pio desiderio. Non c’è rimasto più niente da contemplare.» Si stava quasi rilassando, e la sua voce non aveva l’abituale, tagliente asprezza.
L’uomo osservò Betha con aria interrogativa.
«Non tutti.» Distolse lo sguardo e fissò la parte anteriore della vettura, cercando un pretesto per smettere di parlare. Udì la donna domandare all’altro che genere di lavoro svolgesse per il governo, ma non prestò attenzione alla risposta. Erano quasi giunti al terminator;[5] si stava avvicinando lentamente, simile all’ombra delle nuvole che attraversavano i deserti frastagliati di Mattino. Oltre il terminatore, parallela al limitare dell’ombra, si stagliava una linea di leviatani: pali mozzi di acciaio coronati da anelli di rame e collegati fra loro da luci intermittenti rosse e verdi.
«Quello è l’acceleratore lineare» spiegò la donna. «Viene usato per trasportare i carichi che non devono muoversi troppo velocemente, o che non devono andare troppo lontano… Cosa pensa esattamente un Materialista?»
Attraversarono il terminatore, sbattendo gli occhi per l’improvvisa oscurità, come se qualcuno avesse spento un interruttore, e passarono in mezzo alle gigantesche torri dell’acceleratore. L’uomo dai capelli neri stava ascoltando Shadow Jack; Betha si sentì costretta suo malgrado a fissare quel volto.
«… e ti danno una parola, il nome di qualcosa di materiale che si suppone possa distinguerti dagli altri e in qualche modo plasmare il tuo essere. Metà della gente non sa nemmeno cosa significhi il suo nome, ormai…»
Betha fissò in silenzio lo straniero sentendosi impotente, vergognosa, spaventata fino al punto di tremare… ricordò Mattino, e i primi giorni del suo amore per Eric: un ingegnere e un sociologo male accoppiati nel cortile di una fabbrica lungo il perimetro di Hotspot; il metallo ardente nel calore inesauribile di un mezzogiorno senza fine… Ripensò ai loro ultimi giorni su Mattino: una lastra di ghiaccio infranta dentro un pozzo nel crepuscolo infinito, dove il margine scricchiolante della banchisa ghiacciata del lato oscuro, venata di rosa e ambra dai fuochi del tramonto, frantumava la sua immagine riflessa nel Mare Boreale. Campo Borealis, dove la sua famiglia, così come l’equipaggio appena composto del Ranger, lavorava insieme alla preparazione di un’attrezzatura di emergenza, e si organizzava per il viaggio di 1,3 anni-luce che li avrebbe condotti sul pianeta Uhuru, circondato dai ghiacci.
Erano stati selezionati fra tutti i volontari disposti a lasciare casa e lavoro per aiutare un mondo della loro catena commerciale; ma non immaginavano il viaggio che avrebbero dovuto affrontare. Dall’Alto Consiglio era giunta notizia che Uhuru aveva comunicato con un radiomessaggio di non avere più necessità di soccorsi. Era stata loro assegnata una nuova, inattesa destinazione — il sistema di Paradiso — e un obbiettivo ben diverso dalla semplice sopravvivenza di un altro mondo o del loro. Ricordò i festeggiamenti, il loro orgoglio per l’onore ricevuto, e l’orgoglio delle famiglie delle loro famiglie… Rivide Eric che la portava via tranquillamente dalla sala affollata e illuminata dal fuoco per un ultimo, breve momento di solitudine prima di un viaggio che sarebbe durato anni. Le sue mani delicate, e il carezzevole tepore della sauna vuota. Ridendo si erano tuffati nella neve… il calore della passione, il gelo devastante della morte… fuoco e ghiaccio, fuoco e ghiaccio… Betha urlò in silenzio: Eric, non tradirmi adesso… dammi forza…
Il vagoncino continuò a scivolare attraverso l’oscurità.
Si fermò lentamente sotto le snelle torri della loro meta, fra i contenitori di provviste che rilucevano in modo sinistro… pallidi gialli, verdi e azzurri, cui le luci del terreno conferivano una strana fosforescenza. Betha si scrollò dalla mente il passato, e prese a osservare la foresta rilucente di sagome aliene. Udì la donna che stava parlando con Shadow Jack: «…come i vostri campi di Lansing assomigliano al nostro sistema di cisterne. Naturalmente noi non abbiamo scarsità di acqua; la neve viene immagazzinata in basso, dentro le vecchie cavità minerarie. Ne abbiamo a sufficienza da resistere per sempre, immagino.» II suo sorriso tradì un orgoglio che inconsciamente era avidità. Il funzionario governativo la fissò; Betha colse nella sua espressione un fugace senso di rabbia, e se ne domandò il perché. All’improvviso Shadow Jack balzò su dal sedile, trovando subito l’equilibrio, per istinto. La tensione lo tendeva di nuovo come un filo; Betha si domandò se la sua faccia tradisse qualcosa.
Seguirono l’uomo e la donna attraverso rumori radiofonici che non sapevano a chi attribuire e l’impersonale frastuono degli operai sulla piattaforma; giunsero così a un altro portello incassato nella solida roccia di superficie. Entrarono al disotto della presa d’aria e percorsero gallerie che scendevano a forte pendenza verso il centro della roccia, pur senza darne l’impressione. Betha sentì che la sua tuta si afflosciava con il ritorno della pressione, e i suoi movimenti ne furono agevolati. Adesso i suoni le giungevano direttamente, ovattati dal casco, mentre passava accanto a capannelli di persone, alcune in tute e altre no, tutte misericordiosamente disinteressate; si domandò di nuovo cosa significasse il comportamento dei fotografi al campo.
Seguirono una corda lungo la parete del corridoio principale, dove i guanti ruvidi delle tute a pressione avevano lasciato una specie di solco sulla superficie bucherellata. Più in basso, davanti a lei, vide che la galleria finiva, aprendosi in un ambiente nel quale pendeva un fitto reticolato. Incuriosita, Betha si affacciò sulla soglia.
«Oh…» Ebbe l’impressione di non riuscire più a respirare. Rimase dov’era, come Shadow Jack, estasiata da una favolosa bellezza imprigionata nella pietra. Di fronte a loro si apriva una cavità del diametro di un chilometro o forse più: un immenso, innaturale geode costellato di scintillanti escrescenze cristalline, smussate o appuntite, un’orgia di colori iridescenti, cangianti, contrastanti. L’interno era pieno di ragnatele, serici filamenti tessuti da qualche incredibile ragno…
Le immagini cominciarono a prendere nuova forma nella sua mente; Betha si rese conto che quella era la città, il cuore pulsante dell’asteroide Mecca… e che le infiorescenze cristalline erano le sue torri, protese dal pavimento, dal soffitto e da ogni Iato. Perché non cadono…? I suoi pensieri turbinavano; sentì che qualcuno l’afferrava per le braccia. Irritata, si costrinse a fissare la vertiginosa immensità di quella sala. Lungo i fili della ragnatela la gente saliva e scendeva, minuscola come moscerini; si trattava di funi leggere, tese da un’estremità all’altra dell’ampia cavità. Le torri più alte si levavano dal soffitto e dal pavimento, sondando l’aria interna lungo la linea diretta della debole ma inesorabile attrazione gravitazionale. Gli edifici che si protendevano dai lati ricurvi della caverna erano più bassi, più tozzi, dovendo sopportare una sollecitazione assai maggiore. Le torri ondeggiavano delicatamente alle leggere correnti dell’impianto di ventilazione; non erano solide superfici cristalline, ma tremolanti tende di tessuto colorato sovrapposte a snelle strutture metalliche.
5
Terminatore: linea di confine fra la zona d’ombra e quella illuminata su un corpo che riceve la luce da un altro astro (