Abdhiamal sbatté le palpebre, come se le parole di lei lo avessero colpito in faccia, ma poi si limitò ad alzare le spalle. «È inutile dire che noi non ci vediamo in questa prospettiva. Immagino che la sua idea della collaborazione sia più vicina a quella degli Anellani della Grande Armonia.» Non c’era sarcasmo nelle sua parole. «Essi esaltano la collaborazione sopra ogni altra cosa perché non possono farne a meno; dopo la guerra non hanno avuto la stessa fortuna della Demarchia. Però hanno uno stato socialista e una forte marina; ottengono la collaborazione con l’ausilio delle armi, e non si tratta di una collaborazione vera e propria. È per questo che sono messi al bando, almeno per quanto riguarda la Demarchia. Non si fidano della natura umana individuale, anche se è sostenuta dai legami familiari.»
Betha dovette lottare per reprimere un improvviso, irrazionale risentimento. «Finora ha funzionato abbastanza bene. Ma noi non uccidiamo gli stranieri che si rivolgono a noi per aiuto.»
«Forse non ne avete mai avuto un motivo sufficientemente valido, capitano.»
La donna s’irrigidì. Sul volto di lui apparve all’istante un’espressione di scusa, dietro la quale lei vide un riflesso del suo stesso disorientamento, la frustrazione di uno straniero intrappolato in un universo alieno. Era un uomo senza famiglia… e adesso senza amici, senza mondo, senza futuro. Betha ebbe il forte sospetto che Wadie non fosse il tipo d’uomo abituato a commettere errori… a dividere un fardello, o una vita… non Eric.
«Mi dispiace, capitano. La prego di accettare le mie scuse.» Abdhiamal ebbe un attimo di esitazione. «E… mi consenta di farle le mie scuse anche per la mia mancanza di tatto dopo l’assemblea generale.»
«Capisco.» Lei vide negli occhi dell’altro un senso di fastidio e si alzò, prima di accorgersi che il fastidio diventava bisogno. «Se vuole scusarmi…» Si allontanò, in cerca di una via d’uscita. «Io… devo andare da Clewell… giù in sala macchine.»
«Le dispiace se vengo con lei?» La sua voce la sorprese.
Esitò, bloccandosi in mezzo alla sala. «Be’, io… no, perché dovrebbe dispiacermi?»
Wadie si alzò, posando Rusty al suolo. Il gatto balzò via, con il pelo dritto, e attraversò la sala fino al punto in cui c’era Shadow Jack ancora addormentato, con il viso sepolto nel cuscino. Rusty si accucciò accanto a lui, con una zampa screziata distesa con gesto di protezione sopra le sue dita piegate.
«Povero Rusty.» Betha abbassò gli occhi. «È così solo, da quando… Era abituato ad avere molte attenzioni.»
«Su Mecca avrebbe potuto avere tutte quelle che voleva.»
«Sarebbe stato adorato. Non è la stessa cosa.»
Betha scese lungo la scala a spirale fino al livello inferiore e lo attese sul pianerottolo. Wadie affrontò ogni scalino con dignitosa ponderatezza, mentre le ginocchia sembravano voler cedere e la sua mano si afferrava alla ringhiera quasi con disperazione. Si fermò accanto a lei con studiata noncuranza, guardando più in basso, oltre il parapetto di legno levigato; il pozzo delle scale si estendeva per altri quattro livelli, perforando lo scafo nel senso della lunghezza. Sul fondo si vedevano i cerchi concentrici di un passavivande.
«È un buon esercizio.» Betha era in piedi contro la parete, ed evitava di guardare il pozzo.
Lui si ritrasse con un sorriso innocuo. La porta nella parete alle sue spalle era sigillata, ma la luce rossa penetrava ugualmente proiettando le loro ombre giù nel pozzo. «Cosa c’è lì dietro?» Con la mano accarezzò la superficie gelida della porta.
«Era la sala riunioni. È lì che sono morti tutti, quando lo scafo fu danneggiato. Non è pressurizzata; la prego, non tocchi nulla.» Distolse lo sguardo da lui, e si mise a fissarsi le mani. Poi prese a ridiscendere per le scale, lasciandolo indietro.
Raggiunta la sala macchine al quarto livello, udì il rumore stridente di una sega a mano. «Pappy!» gridò, e sentì l’eco del suo grido riverberarsi lungo tutta la sala.
«Sono qui, Betha!»
Lei individuò da dove proveniva la risposta e si mosse, con le suole di gomma delle scarpe che scricchiolavano debolmente sul legno. Il rumore secco e irregolare degli stivaletti lucidati di Abdhiamal si fece sempre più vicino, ma lei non si voltò a guardare.
«Gesù, Pappy, perché diavolo non usi la fresa? Clewell alzò gli occhi mentre loro si avvicinavano, fissando la serie di laser sopra il tavolo da lavoro.» Perché è un hobby.
«II che significa che tu te ne stai qui per ore e ore a spezzarti la schiena per fare qualcosa che con una macchina potresti fare in un minuto?»
«L’impazienza della gioventù!» Si chinò sulla sega e finì di tagliare il blocco di legno: il pezzetto cadde a terra. «Finito.» Si portò la mano al petto, poi vide che lei lo stava osservando, e allora se la portò al collo, detergendosi il sudore.
«Chi ti capisce…» Mani sui fianchi, Betha aveva l’aria addolorata. «Io… ehm, io credevo che stessi ricontrollando i miei calcoli per riparare il foro nello scafo.»
«L’ho fatto. Mi sembrano precisi. Ma per il momento non possiamo fare niente, finché restiamo a gravità uno.» La guardò con una faccia strana.
Abdhiamal si chinò per raccogliere l’estremità scheggiata del blocco di legno e sfiorò con la mano la superficie ruvida; sembrava quasi che avesse dimenticato tutto il resto. «Ehi, cos’è questa roba? È fibrosa.»
«È legno. Organico. Dai tronchi degli alberi» rispose Clewell. «Pseudoquercia, per essere precisi. È duro, ma si lavora bene.»
«Anche il pavimento? Tutta fibra vegetale… legno?»
L’altro annuì. «È più semplice che trasformarlo in plastica. La pseudoquercia cresce di due centimetri al giorno, nei pressi del Mare Boreale.»
Abdhiamal accarezzò con la mano la superficie incisa del tavolo di metallo, poi alzò lo sguardo verso la fresa e lo schermo protettivo. «Laser?» La sua mano si chiuse a pugno, mentre i suoi occhi frugavano la stanza, poi si riaprì e puntò un dito verso le ampie porte ricavate nello scafo e aperte direttamente sullo spazio… e verso gli elettromagneti fissati al soffitto. Betha vide che lui rispondeva da solo alle proprie domande inespresse. «E a cosa serve quell’attrezzatura lassù?»
Betha seguì la sua mano, rivedendo con gli occhi della mente il rosso Sean al lavoro, intrepidamente goffo, e Nikolai, paziente, alla guida. Distolse lo sguardo. «Microcircuiti per la riparazione dei nostri strumenti elettronici.»
«Voi avete il vostro impianto di energia a fusione… potreste riprodurre qualsiasi parte della nave, in questo stesso momento, non è vero?»
«Teoricamente. Ci sono alcune parti che non mi azzarderei a riprodurre. Questo è stato un lungo viaggio; dovevamo essere preparati a tutto.» A parte questo.
«Dio! Se solo Park e Osuna potessero vedere questo posto.»
«Chi?» Clewell tolse il legno dal morsetto.
«Sono “ingegneri”.» Pronunciò quella parola con disprezzo.
«E cos’ha contro gli ingegneri?» Betha si strinse forte le braccia contro lo stomaco, sollevando le palpebre.
«Cosa ho contro di loro?» Abdhiamal fece un gesto strano. «Sono un branco di cannibali. Continuano a mettere toppe su toppe, fanno a pezzi una cosa e se ne servono per tenerne insieme altre tre, poi fanno a pezzi una di queste ultime…»
«Mi sembra ingegnoso.»
«Ma se ne fanno un vanto! Pensano che sia creazione, e invece è solo distruzione. Se leggessero qualcosa, almeno, se avessero un minimo di immaginazione, saprebbero qual è la vera creazione. Una volta potevamo farlo… e nessuno lo faceva meglio di loro. Ma ormai è come pretendere che la vita si perpetui sotto vuoto.»