«Yin e yang?»
Lui annuì. «Sa cosa rappresentano?»
«No.»
«Rappresentano l’Uomo e la Donna. Su Mattino, ciò significa due metà uguali che si fondono in un perfetto intero biologico. Una macchia di bianco in mezzo al nero, una macchia di nero in mezzo al bianco… per ricordarci che i geni di un uomo sono presenti nella creazione di ogni donna e i geni di una donna sono presenti nella creazione di ogni uomo. Noi non siamo uomini e bestie, Abdhiamal, noi siamo uomini e donne. I nostri geni si armonizzano; siamo tutti esseri umani. Quando si smette di pensarci, è una cosa che ha molto senso.»
«Strano…» Abdhiamal sorrise di nuovo, vagamente. «Ero convinto, chissà perché, che lo yin e lo yang non avessero niente a che fare con il retaggio culturale di Mattino.»
«La sua gente e la mia provengono tutte dallo stesso Vecchio Mondo. All’origine yin e yang non significavano molto per noi. Allora avevamo un mucchio di simboli che ci separava. Adesso ce ne basta uno.»
«Yin e yang e la Regina dei Vichinghi…» mormorò Abdhiamal, mentre il suo sorriso assumeva un che di miserevole. «E Wadie nel Paese delle Meraviglie. Perché ci sono stati più uomini che donne nella sua… famiglia?»
Perché così sono andate le cose. Per poco Clewell non gli rispose dicendogli la verità. Invece, dopo una pausa, disse: «Figliolo, se devi domandarmi perché un matrimonio ha più bisogno di uomini che di donne, sei più giovane di quanto io pensassi.» Fece una smorfia. «E non è perché io sto invecchiando.»
Abdhiamal si ritrasse, mentre l’incredulità scompigliava il suo decoro. Allungò una mano per restituire il bracciale.
Clewell scosse il capo. «Tienilo. Mettilo… Pensaci, quando ti domanderai perché siamo degli estranei per te.»
Betha rientrò in sala comandi; Shadow Jack e Rusty giacevano ancora testa contro testa sul tappeto color verde erba. Lei li oltrepassò tranquillamente, si sedette davanti al quadro comandi e mise a fuoco Discus sullo schermo: una piccola mezzaluna argentea simile a un’unghia di pollice. Era tutto ciò che importava, adesso; lei avrebbe riportato a casa quella nave. Stavolta ce l’avrebbero fatta. Niente doveva frapporsi tra lei e il suo proposito, nessun uomo, vivo o morto, nessun ricordo…
La mano ferita le bruciava. La premette contro il pannello gelido, lasciandovi una macchia di sangue. La sua mente attraversò tre anni luce e una mezza esistenza per raggiungere un cortile di fattoria lungo il perimetro di Hotspot, dove lei si era ustionata la mano sul metallo ardente mentre ispezionava il suo ideale divenuto realtà. Si era recata all’esterno per vedere il suo primo progetto da ingegnere che passava in successione lungo la linea di montaggio… insopportabilmente argenteo nella luce accecante del mezzogiorno, insopportabilmente bello. Si trovava allora nel terzo quarto del suo ventesimo anno, ed era appena giunta dal terminatore ghiacciato. La pioggia dorata del calore, la martellante corrente d’aria desertica riarsa, il perimetro della desolazione totale, tutto ciò l’aveva abbagliata; l’orgoglio l’aveva riempita di una strana allegria, e c’era un certo studente lavoratore… Lei attendeva che lui la raggiungesse e le dicesse che il suo progetto era magnifico, e poi le chiedesse… Dei guanti ruvidi l’avevano afferrata per le braccia, facendola voltare. «Ehi, fringuello, vuoi diventare cieca?» Aveva visto il volto adorato e bruciato dal sole di Eric van Helsing che rideva di lei attraverso la visiera del casco; aveva riconosciuto l’imbottitura della sua giacca isolante. «Me l’avevano detto che gli ingegneri sono troppo brillanti per funzionare al buio, ma non esagerare. È meglio che torni indietro.»
«Come sociologo non hai imparato molto sulla motivazione, Eric van Helsing.» Arrabbiata perché lui aveva rovinato tutto, e perché lo aveva atteso come una sciocca, Betha si era liberata dalla stretta ed era scappata via attraverso il cortile ghiaioso, trovando rifugio nella fredda, allucinante oscurità del più vicino edificio. Si era immobilizzata nel corridoio, combattendo la voglia di piangere, e lo aveva sentito entrare dietro di sé…
Qualcuno entrò nella sala; Betha avvertì un profumo di mele. Cercò il volto tondo e liscio e i riccioli dorati di Claire… e vide Bird Alyn, magra e scura di pelle, e goffa come un pezzo di legno; una driade in maglione rosa e blue jeans, con i fiori tra i capelli… Bird Alyn, non Claire, si curava adesso del laboratorio idroponico.
Shadow Jack si mosse appena quando Bird Alyn si lasciò cadere accanto a lui; le guance chiazzate della ragazza assunsero una tinta rosa-scuro. Betha tornò a guardare lo schermo, nascondendo il suo sorriso.
«… andrebbe qualche mela?»
«Oh… grazie, Bird Alyn.» Rise, imbarazzato. «Tu pensi sempre a me.»
Lei mormorò qualcosa in tono interrogativo.
«Che diavolo ti prende? No! Quante volte te lo devo ripetere? Vattene da qui, lasciami solo!»
Betha fu colpita come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco; udì Bird Alyn che si rialzava e se ne andava di corsa, incespicando sulla soglia. Allora si voltò a guardare Shadow Jack; quest’ultimo s’era messo in ginocchio, poi si alzò in piedi ricambiando il suo sguardo.
«Forse non mi riguarda, Shadow Jack, ma cosa diavolo ti succede?»
«Non mi succede un bel niente! Pensa forse che tutti debbano essere come voi? Invece non è così. Siete un branco di pervertiti!» La voce gli tremava. «Mi fa star male.» Uscì dalla sala, e Betha sentì che scendeva le scale velocemente.
La donna rimase immobile, stringendo i braccioli del sedile e domandandosi come avrebbe trovato la forza per alzarsi… Rusty faceva le fusa accanto alle sue gambe. Con gesto rigido abbassò la mano e si mise il gatto in grembo, aggrappandosi all’idea, alla promessa di un tempo in cui Paradiso sarebbe stata soltanto una delle innumerevoli stelle perdute aldilà del crepuscolo. «Rusty, tu sei tutto ciò su cui faccio affidamento. Cosa avrei fatto senza di te?» La lingua ruvida della bestiola le baciò due volte il palmo della mano con amorevole dolcezza. «Oh, Rusty» bisbigliò Betha, «tu ci fai sentire degli ingrati.» Poi si alzò in piedi lentamente e fissò la porta vuota.
Le ombre si muovevano silenziosamente al disopra delle piastrelle del laboratorio, umide e verdi, simili alle acque di un mare di sogno. Bird Alyn singhiozzava contro le gelide piastrelle esagonali della panchina, sfiorata dalle fragili dita di una felce ricadente. «… non è giusto, non è giusto…» Il suo amore era un tormento senza fine perché si nutriva di sogni. Lui non l’avrebbe mai toccata, non le avrebbe mai accarezzato i capelli… non l’avrebbe mai amata, e lei non avrebbe mai smesso di avere bisogno del suo amore.
Lo udì entrare in laboratorio, e il singhiozzo le morì in gola. Si rialzò con gli occhi chiusi e le lacrime che le bagnavano ancora il volto.
«Non piangere, Bird Alyn. Sprechi acqua.» Shadow Jack le si mise accanto, con le mani sui fianchi.
Lei riaprì gli occhi e lo vide attraverso le ciglia umide, sentendo che, suo malgrado, non sarebbe riuscita a trattenere altre lacrime. «Abbiamo… acqua in abbondanza, Shadow Jack.» L’infelicità le si annidava dentro, e premeva come una molla compressa. «Non siamo su Lansing, qui è tutto diverso!»
Gli occhi di lui lo negarono; senza dire nulla, aggrottò la fronte.
Bird Alyn si girò dall’altra parte. «Ma io no… so di non essere diversa. Perché mi è successo tutto questo? Perché sono così brutta, se ti amo?»