«E come glielo farà capire? Ha visto molto bene come stanno ad ascoltare.» Batté il palmo della mano sul divano. «Non la starebbero nemmeno a sentire.»
«No, infatti…» Betha cominciò a sorridere, un sorriso triste, muovendo la testa da una parte e dall’altra. «Wadie Abdhiamal… come siamo arrivati a questo punto? Lei a dire di no, io di sì… Come potremo mai capirci meglio di quanto comprendiamo noi stessi?»
Lui scosse la testa, sentì un sorriso addolcirgli le labbra, e nel guardarla dimenticò la sua inutile rabbia.
La mano di Betha si mosse esitante dalla scrivania per toccargli il braccialetto di cuoio che portava al polso; lui l’afferrò e le loro dita s’intrecciarono. Lei lo fissò, poi abbassò lo sguardo sulle loro mani; infine ritrasse la sua, e come seguendo un proprio pensiero, disse con voce sommessa: «E nessuno di loro visse più in allegria da allora in poi…»
NAVE AMMIRAGLIA +3.00 MEGASECONDI
Un’incursione. Mentre lui, Raul Nakamore, era a caccia della nave fantasma proveniente dallo Spazio Esterno, quella gli aveva letteralmente girato intorno e aveva effettuato un’incursione proprio nella distilleria che le sue navi in prestito erano state chiamate a difendere. Lui, intanto, era ancora bloccato nella sua iniziale e inutile traiettoria in direzione di Lansing, senza il carburante necessario per tentare almeno un ulteriore inseguimento che avesse una minima speranza di successo. Raul tamburellava nervosamente sul bracciolo del sedile, non avendo altro modo per sfogare la sua frustrazione.
Eppure i rapporti ricevuti indicavano che l’astronave non aveva puntato direttamente fuori del sistema: essa stava probabilmente ripercorrendo a ritroso la sua rotta, e si dirigeva di nuovo verso Lansing. Raul diede un’occhiata al pannello dei comandi, e vide che erano trascorsi duemilasettecento chilosecondi; ne rimanevano soltanto ventitré prima di raggiungere Lansing. Come la favola della lepre e della tartaruga… Rallentata dal peso dell’idrogeno rubato, l’astronave non avrebbe mai raggiunto Lansing prima di loro, se Lansing era la sua destinazione. Ma perché avrebbe dovuto esserlo? Perché quegli esseri giunti dall’Esterno dovevano fare i pirati con Lansing quando avevano già sofferto perdite negli Anelli? Per vendetta? Ma avrebbero potuto facilmente distruggere la distilleria, e invece si erano limitati a rubare mille tonnellate di idrogeno: troppo poco per ridurre a mal partito la Grande Armonia, troppo per alimentare un motore stellare.
Ed era stato Wadie Abdhiamal a mostrar loro come rubarlo… Wadie Abdhiamal della Demarchia. Messo fuorilegge dalla Demarchia — aveva detto Djem, — dichiarato traditore dalla sua stessa gente per avere aiutato l’astronave a fuggire. E se c’era una cosa di cui Raul era sicuro, era proprio che Abdhiamal non fosse un traditore. Perché mai doveva avere tradito il futuro del suo popolo? Forse non era uno sciovinista, ma certamente non era pazzo. Perché avrebbe dovuto mettere a repentaglio la sicurezza di Nevi-della-Salvezza quando sapeva meglio di qualunque altro demarca ciò che significava per entrambi i loro popoli? Perché avrebbe dovuto tradire i suoi amici, così da esser tagliato fuori dall’unico rifugio che avrebbe potuto trovare nel suo esilio?
Forse era stato costretto a farlo. Ma Djem non riteneva che Abdhiamal si fosse comportato come un uomo obbligato a fare qualcosa… Raul sapeva che Djem non avrebbe mai perdonato Wadie Abdhiamal per il tradimento della loro amicizia, se non per altre ragioni. Cosa c’era in quella nave, o in chi la guidava, che poteva spingere un uomo come Abdhiamal a sacrificare ogni cosa? Forse non lo avrebbe mai saputo. Ma se quella nave li stava seguendo verso Lansing…
Raul si stiracchiò e si voltò a guardare Sandoval. Quest’ultimo sedeva con un’espressione di inequivocabile noia sul profilo aquilino, rileggendo un nastroromanzo. Un buon ufficiale, pensò Raul. Se pure riteneva inutile o svantaggioso l’uso che lui stava facendo della sua nave e del suo equipaggio, non lo aveva mai dato a vedere. Raul tenne per sé i suoi dubbi e le sue riflessioni personali. Ventitré chilosecondi a Lansing. E forse, alla fin fine, non sarebbero rimasti delusi…
La vista di Discus, raggrinzito fin quasi a divenire insignificante, accolse Raul mentre usciva dal portello e scivolava giù verso la superficie pietrosa del campo commerciale di Lansing. Ricordò che molto tempo prima aveva alzato gli occhi verso il cielo della Demarchia, dove Discus era soltanto un puntolino luminoso, una tra mille stelle sparpagliate, irraggiungibile proprio come una stella. Ricordò il senso di isolamento e di desolazione che l’aveva assalito allora. Ma questa volta, invisibile e tuttavia molto più a portata di mano, c’era la nave che aveva appena lasciato in orbita corta al disopra di Lansing per garantire la loro sicurezza. Si mosse lentamente, aspettando che scendessero anche gli uomini degli equipaggi delle altre due navi ormeggiate, e cercando di sciogliere la tensione e i muscoli un po’ rattrappiti — riconoscente per il ritorno della gravità normale dopo quasi tre megasecondi. — Nel campo c’erano altre tre navi. Le studiò con distratta curiosità, rendendosi conto che Lansing possedeva i razzi elettrico-nucleari che invece la Grande Armonia non aveva; ma accorgendosi anche che quelle navi erano talmente malridotte e pericolose che l’Armonia poteva benissimo farne a meno. Sotto di lui (l’angolo della debole forza di gravità gli fece venire in mente quel termine) la plastica semitrasparente che ricopriva i nove decimi della superficie di Lansing rivelava chiazze di verde e oro che dal suo punto di osservazione assumevano tinte color pastello. Pensò alla neve fluttuante: gas impuri cristallizzati dal freddo.
Quella era Lansing, una volta orgogliosa capitale di un’altrettanto orgogliosa Cintura di Paradiso, mondo unico nel suo genere. Il suo ecosistema indipendente aveva ricreato la Vecchia Terra, e per questo la popolazione era sopravvissuta alla guerra; e anche perché, come capitale, era stata un monumento e nient’altro. Lui sapeva che Lansing era stata ridotta alla pirateria, al tempo del loro ultimo passaggio ravvicinato con Discus; e si domandò cosa fosse divenuta adesso. I suoi uomini erano ostili e nervosi. Lui aveva ordinato di rimanere in tuta anche all’interno dell’asteroide, per isolarli da qualsiasi possibilità di contagio… e anche per proteggerli da altri incidenti che potessero scaturire da un incontro faccia a faccia con gli indigeni.
Si diressero verso l’unica presa d’aria visibile sul fianco della collina al disopra delle navi, e Raul diede un’occhiata all’antenna radio che svettava solitaria sulla cima. Era semiilluminata dalla luce fredda del lontano sole, e sprofondava nell’ombra a mano a mano che il planetoide rotolava via impercettibilmente, ma irrefrenabilmente. Nessuna luce brillava lungo il suo stelo affusolato per avvisare le navi in arrivo al porto. Il suo tecnico radio non era riuscito a captare nessuna trasmissione in risposta da Lansing. Si domandò se le loro comunicazioni fossero fallite del tutto, se addirittura lì non ignorassero l’arrivo della sua nave… se — una specie di sgradevole premonizione — non fossero già tutti morti.
Uno dei suoi uomini girò la manopola del portello sepolto nella roccia, e lui vide che cominciava a ruotare. Gli uomini alle sue spalle attesero senza fretta, senza sollievo, senza il minimo senso di trionfo per avere raggiunto la loro meta. Udì soltanto dei bisbigli frammentari, un borbottio inquieto, il tutto trasmessogli dalla radio della tuta. Quel silenzio lo sorprese, finché si rese conto che era solo un’estensione del suo; quasi che tutti fossero stati contagiati dall’isolamento e dal drappo di morte che circondavano la Cintura Principale così come una specie di tendone cingeva quel mondo. Il portello della presa d’aria finì di girare e si aprì. Con l’improvvisa visione del pozzo che spalancava le sue fauci, le porte dell’inferno, Raul fece il suo ingresso nel sottomondo.