La camera stagna entrò in funzione, sostituendo il vuoto con l’atmosfera in quello spazio affollato. Raul sentì la tuta perdere la sua rigidità, e guardò dietro di sé per accertarsi che nessuno gli disobbedisse togliendosi il casco. Dopo quasi tre megasecondi di incerta aria riprocessata, lui si rendeva conto benissimo di quanto fosse forte la tentazione. Controllò il fucile, e se lo fissò al braccio.
Il portello interno si aprì. Lui guardò all’interno… e vide i volti sbarrati di una mezza dozzina di uomini e donne, paralizzati dall’incredulità. Raul comprese che non era atteso. S’infilò nel corridoio, scrutando i volti atterriti in cerca di un’espressione che gli indicasse chi li comandava; fu colpito dalla loro sporcizia, dai loro abiti rattoppati e malconci. Udì gli uomini dietro di lui che imprecavano, stupefatti, e dovette alzare il tono della voce. «Allora, chi…»
Una donna che avrebbe potuto essere giovane o vecchia si fece avanti, e si diresse verso di lui portando qualcosa avvolto in stracci; Raul vide che le lacrime le rendevano lucide le guance, mentre i suoi occhi scuri lo fissavano con una strana espressione di bisogno. Udì la sua voce tremante che diceva: «Un miracolo, è un miracolo…» Prima che lui potesse reagire, la donna gli mise il fagotto fra le braccia, poi scappò via e scomparve lungo la galleria in discesa. Colto alla sprovvista, Raul abbassò gli occhi e si accorse di tenere in braccio un bambino appena nato. Il neonato non emetteva alcun suono; quando si rese conto del perché, lui distolse lo sguardo. «Di chi è questo bambino?» La sua voce era dura per la rabbia, per il rifiuto.
Uno degli uomini avanzò verso di lui con la paura ancora dipinta in faccia, travolto da chissà quale disperazione. «È mio… nostro. Per favore… per favore, me lo dia.» Da come si esprimeva, sembrava che stesse parlando di una cosa. Protese le braccia verso di lui, e una delle maniche scivolò giù, lacera fino al gomito. Le unghie erano nere per la sporcizia, e le linee delle mani erano anch’esse sudice in maniera incredibile.
Raul protese lentamente in avanti il bambino, incerto sul da farsi. Il padre l’afferrò, quasi strappandoglielo dalle mani. Poi, all’improvviso, l’uomo si fece strada attraverso il cerchio di marinai armati e, giunto al portello, vi infilò dentro il bambino; la mano trovò il quadro comandi e premette l’interruttore, mettendo in funzione il meccanismo di chiusura.
Raul vide Sandoval balzare in avanti, ma l’uomo si afferrò alla parete, coprendo il quadro con il corpo, mentre il portello cominciava a chiudersi. Il pugno guantato di Sandoval lo prese per la camicia, sul davanti, lacerando il tessuto consumato; l’altro lo allontanò con un calcio. Il portello si chiuse definitivamente mentre Sandoval cercava di infilare le dita nella fessura. Sopra le loro teste la luce trascolorò dal verde al rosso. «Perché…» Sandoval si voltò, mentre due dei suoi uomini si ponevano ai lati dell’indigeno, bloccandolo.
«Sandoval!» Raul alzò una mano. «Basta così. Basta così… È stato un omicidio per pietà. Lo lasci.»
«Signore…» La rabbia impotente di Sandoval rimase intrappolata aldilà della visiera.
Raul scosse la testa, allontanando il ricordo dei suoi cinque figli, tre femmine e due maschi, tutti ormai cresciuti e in buona salute. Osservò il padre che si accasciava pian piano contro la parete mentre gli uomini dell’equipaggio lo lasciavano. Lo sventurato tirò tristemente i lembi strappati della sua camicia, riunendoli come se si trattasse di una ferita mortale.
Raul guardò lungo la galleria, e si accorse che tutti gli altri erano spariti. Allora si diresse verso il loro prigioniero attraverso la rabbia soffocante dei marinai, attraverso i loro volti tesi. L’uomo si fece piccolo, sollevando le mani. «Dovevo farlo… dovevo. Qualcuno doveva farlo; lei lo sapeva, ma non voleva riconoscerlo! Lo dicevano tutti. Sarebbe morto comunque… non è vero? Non è vero? Lo ha visto, era malformato…» Abbassò le mani, protendendole verso il braccio di Raul, coperto dalla tuta. «Lei lo ha visto?»
Raul strinse il pugno, soffocando il desiderio di respingere con violenza quella mano. Respirò a fondo. «Sì, l’ho visto. Non sarebbe sopravvissuto.»
L’uomo cominciò a piagnucolare, aggrappandosi alla sua manica. «Grazie… grazie…»
Raul l’afferrò e lo scosse con rudezza, preso da una sensazione a metà fra il disgusto e la pietà. «Chi sei?»
L’uomo lo guardò con aria istupidita, senza capire.
«Il tuo nome» disse Raul. «Fatti riconoscere.»
«Wind… Wind Kitavu.» Poi si raddrizzò e si liberò dalla stretta di Raul, mentre nei suoi occhi tornava un’espressione ragionevole; occhi da vecchio sul volto di un giovane. «Chi… cosa fate qui?»
«Faccio domande. Per prima cosa, qui c’è qualcuno che comanda, e in tal caso puoi portarci da lui?»
Wind Kitavu annuì, fissando distrattamente le bocche di una mezza dozzina di fucili puntati su di lui. «Il primo ministro, l’Assemblea. Io so dove sono le camere. L’accompagno…» Le sue dita cercarono nuovamente lo strappo della camicia, riaccostando nervosamente gli orli. «Lei non è…» Raul vide la domanda fermarsi sulle sue labbra, e poi ritornargli in gola. «Vuole che la porti?»
Raul fece cenno agli uomini di farsi da parte e seguì Wind Kitavu in mezzo a loro; alle sue spalle si misero in cammino i marinai. Lui si accorse che una delle gambe del prigioniero era più corta dell’altra, e deforme. Le porte dell’inferno; la capitale di Paradiso.
Non vennero ricondotti in superficie come si era aspettato. Wind Kitavu li guidò lungo i corridoi sotterranei, dove uomini e donne dall’aria inebetita e i capelli stoppacciosi li guardarono passare, rivelando un misto di paura e meraviglia, ma soprattutto smarrimento. Nessuna minaccia. Raul sentì la sua circospezione trasformarsi lentamente in un vago senso di avvilimento. Una donna si fece avanti e prese a camminare a fianco di Wind Kitavu. «…astronave…?» Wind Kitavu scrollò la testa, e lei si dileguò con un’espressione preoccupata. Nel passarle davanti Raul vide la disperazione in quegli occhi, e il suo stato d’animo migliorò.
Eseguendo gli ordini ricevuti, Wind Kitavu gli indicò la strada che portava al centro comunicazioni, e lui inviò Sandoval con due uomini in avanscoperta. Insieme agli altri proseguì il cammino, domandandosi cosa avrebbero trovato una volta raggiunte le sale dell’assemblea.
Qualsiasi cosa si fosse aspettata, non era certo preparato a quello che scoprì alla fine. Qualcuno aveva già avvisato del loro arrivo: sette figure lo attendevano in piedi, minuscole in una vasta sala dalle pareti ruvide; istintivamente Raul capì che in origine quell’ambiente doveva essere stato destinato al magazzinaggio e non certo a luogo di riunione. E come cristalli preziosi su uno sfondo di nuda roccia, i cinque uomini e le due donne risplendevano nelle loro uniformi di gala. Un uomo, notò Raul, stava ancora sistemando i lembi di una manica che per la fretta si era spiegazzata. Il più vicino di essi si fece avanti con un incedere leggero e cerimonioso, il volto serio e inespressivo, di circostanza. Mentre il dignitario si avvicinava, Raul studiò i ghirigori dei diversi strati di broccato: le fibre assorbivano e intensificavano la luce, restituendola ai suoi occhi in una cascata di fuoco scintillante. Poi, osservando meglio, cominciò a vedere in mezzo al bagliore dei punti più scuri e spenti. Gli abiti erano macchiati e consumati, corrosi dal tempo. L’uomo indossava un copricapo floscio a turbante, fatto dello stesso tessuto; il suo volto segnato e le sue mani rugose, che spiccavano scuri contro la brillantezza dell’abbigliamento, erano puliti.
Raul attese in silenzio finché il dignitario lo raggiunse. Gli altri sei membri dell’assemblea, perso il loro consunto splendore, si raggrupparono lentamente intorno a lui. I loro occhi erano puntati più sull’arma di Raul che sul suo viso. Alla fine l’uomo prese a fissare la visiera di Raul, cercando d’incontrare il suo sguardo. «Io sono Silver Tyr…» la voce lo sorprese per la sua involontaria arroganza, «…Presidente dell’Assemblea di Lansing, Primo Ministro della Cintura di Paradiso…»