Выбрать главу

Wadie si allontanò dallo schermo, dove Lansing si stagliava contro la notte ora vuota: una crisalide in attesa di rinascere a un nuovo ciclo vitale. «Da due miliardi e mezzo di secondi niente va più bene per la Cintura del Paradiso, Bird Alyn. Là fuori ci sono cento milioni di cadaveri, e Dio sa quanti esseri che hanno sofferto le pene dell’inferno…» Il sorriso di Bird Alyn si spense; Shadow Jack la strinse ancora di più a sé; mentre il ricordo del passato velava i loro occhi.

Wadie scrollò il capo. «A questo punto dovremmo avere pagato abbondantemente per i nostri errori. E ora che ci capiti un po’ di fortuna, dannazione: È proprio ora.»

I loro volti si rilassarono. Clewell vide che Betha sollevava gli occhi dal quadro comandi, nascondendo altri ricordi, altri dolori. «Direi di sì. Pappy…» con voce inespressiva, «…tutto è pronto, il cielo è vuoto. Comincia a tracciare la nostra rotta; è tempo di ritornare a casa.» Wadie si mise al suo fianco; Clewell scorse la mano di lui che si alzava esitante, per allontanarsi poi di nuovo, ancora incerta. Le era stato accanto per giorni e giorni, aiutando, imparando… osservando Betha Torgussen con un’intensità che non aveva nulla a che fare con l’interesse per la tecnologia spaziale. L’uomo che sarebbe stato un eroe, un giorno, quando la nave sarebbe ritornata; così aveva detto MacWong. Ma per il momento era solo un traditore… e l’unico consulente commerciale capace di soddisfare sia la Demarchia che gli Anelli. Un brav’uomo, pensò Clewelclass="underline" l’uomo giusto. Come un altro brav’uomo che aveva amato sua moglie e che era stato suo amico.

Clewell sentì gli occhi di Betha toccarlo ancora una volta, azzurri come fiori di campo, appena ombreggiati dal ricordo e dal dolore. Il tempo guarisce tutte le cose… e adesso avevano tutto il tempo che volevano. Betha cambiò l’immagine sullo schermo. Ora mostrava innumerevoli stelle; e una tra quei milioni — raggrinzita, rossa, costante — avrebbe guidato il loro viaggio verso casa.

Una risata proruppe dalla sala e si riversò giù per le scale mentre Bird Alyn e Shadow Jack, inconsapevoli e disinteressati, lasciavano per sempre il passato dietro di sé.

Rusty si sistemò sulla spalla di Clewell, facendo le fusa in dolce armonia con il ricordo di una canzone:

La comunione ci porta aiuto contro il dolore, Perché niente è semplice, ragazzo mio.

Vide i volti degli altri suoi figli, e sperò che sarebbero sopravvissuti abbastanza per vedere quel mondo migliore che era costato tanto e che sembrava non dover mai giungere. «Rusty» disse piano, «è quasi ora.»

FINE

PRESENTAZIONE

Da una decina d’anni ormai la fantascienza americana ha mostrato di aver raggiunto una maturità sociale che si riscontra ben difficilmente in altri campi: infatti in nessun altro settore si è ottenuta una simile parità tra scrittori e scrittrici. Anzi, diremmo che oggi le donne scrittrici sono forse la migliore realtà della fantascienza mondiale. E la cosa può apparire ancor più sconcertante se si pensa che la fantascienza è sempre stato un genere dominato dagli autori di sesso maschile e una roccaforte del “maschilismo” letterario. Tempo fa, nell’introduzione al premio Hugo e Nebula Dreamsnake (Il serpente dell’oblio) di Vonda McIntyre, raccontavamo che negli anni trenta e quaranta le scrittrici dovevano spesso camuffarsi sotto pseudonimi maschili o usare soltanto l’iniziale del loro nome. Oggi le cose sono davvero cambiate, al punto che le scrittrici sono in genere più quotate di tanti loro colleghi, e più acclamate dal pubblico e dalla critica. Le vecchie discriminazioni sono scomparse, e crediamo che non accadrà più di sentir affermare che le donne “non sono in grado di scrivere fantascienza”, come dichiarò moltissimi anni fa lo stesso padre della sf, Hugo Gernsback (il quale si sbugiardò da solo, poiché aveva comperato storie di Leslie F. Stone, scrittrice, credendo che l’autore fosse un uomo).

È ovvio che questa trasformazione non è avvenuta di colpo. Come dice la stessa Joan Vinge «di cui parleremo tra breve» non è vero che le donne non si sono mai interessate di fantascienza. Ci sono sempre state donne scrittrici, come la Moore, la Brackett, la Zenna Henderson, la St. Clair, e tante altre. E ci sono sempre state anche molte lettrici: sorelle, fidanzate, mogli, madri di appassionati, che leggevano magari in segreto. Un intero pubblico di lettrici per lungo tempo sottovalutato, che è venuto allo scoperto soltanto di recente.

Né si deve trascurare l’importanza di Ursula Kroeber Le Guin e il successo delle sue opere: la Le Guin è stata un vero faro, un vivido punto di riferimento per tutte le aspiranti scrittrici. È stata la Le Guin a rompere «per così dire» il ghiaccio: per prima (assieme alla McCaffrey) ha ottenuto riconoscimenti di pubblico e di critica solitamente riservati agli uomini, agli Asimov, agli Heinlein, ai Clarke. Sulla sua scia e avendo lei come modello, un numero notevolissimo di giovani autrici ha intrapreso la carriera letteraria.

Possiamo dire addirittura che si è formata una “scuola” di scrittrici che oggi vanno per la maggiore negli Stati Uniti e che soprattutto hanno saputo introdurre nuovi elementi di sensibilità e di attenzione nello studio dei caratteri umani, armonizzandoli con le caratteristiche scientifiche della fantascienza tradizionale.

La Vinge, di cui presentiamo qui il primo romanzo, è appunto una delle migliori esponenti di questa “scuola” che ci ha già dato autrici del valore di Caroline J. Cherryh e Vonda McIntyre.

Americana di San Diego dalle lontane origini amerinde, Joan Vinge è laureata in antropologia e ha al suo attivo una carriera di archeologa dilettante. Ama il cucito, i gatti, i cavalli; una donna dai molti interessi e dai molti talenti, dunque. Ha iniziato a scrivere fantascienza nel 1974, con Tin Soldier, un romanzo breve pubblicato da Damon Knight sul numero quattordici della sua celebre antologia periodica “Orbit”. In seguito ha dimostrato tutto il suo talento in una serie di storie una più bella dell’altra, e ha ottenuto il giusto riconoscimento dei suoi meriti nel 1977, quando ha vinto un premio Hugo per il romanzo breve Occhi d’ambra (Eyss of Amber, apparso su “Analog”). Nel 1979 ha quasi bissato questo successo con Fireship (Nave incendiaria), da noi pubblicato sull’antologia Robotica delle Grandi Opere.

Chiunque abbia letto Nave incendiaria (un vero tour de force incentrato su un incredibile cyborg, sintesi di uomo e computer) o il bellissimo Occhi d’ambra, magnifica ricostruzione di una civiltà aliena di Titano, si sarà subito reso conto dell’immenso talento di questa scrittrice: un talento letterario innato, che è anche sorretto da una notevole cultura scientifica. Come dice Ben Bova nell’introduzione all’antologia di racconti della Vinge Eyes of amber, “le sue storie possono esser lette come avventure, come intrattenimento puro, come affascinanti visioni di esotici futuri. Ma in queste storie si può anche vedere l’innegabile realtà di una giovane scrittrice che è riuscita a integrare le diverse discipline della scienza e della letteratura, e da esse ha creato alcune delle opere più belle di tutta la fantascienza moderna”.

In effetti, la Vinge ci sembra una delle più valide promesse della fantascienza moderna. Le sue potenzialità sono indiscutibili: la sua bravura nel descrivere “backgrounds” scientificamente solidi e accurati non ha nulla da invidiare alla tecnica di un Niven o di un Clarice; la sensibilità nel trattare emozioni e psicologia dei personaggi è pari a quella della Le Guin o della Cherryh; lo stile effervescente e colorito merita il paragone con i migliori stilisti del settore; e la sua abilità nel trattare e inventare società aliene ricorda quella di un grande maestro come Jack Vance. Certo, Vance è soprattutto un esteta, uno scrittore che ama soffermarsi con distaccato piacere sulle abitudini dell’uomo e filosofeggiare sui suoi difetti; invece la Vinge è una studiosa di antropologia e come tale affronta il problema di uno studio sociale da un punto di vista diverso, forse anche più serio. Per convincersi di ciò basta sentire come si esprime al riguardo la scrittrice stessa: “Io credo che la fantascienza eserciti su di me un fascino molto simile a quello dell’antropologia: entrambi mi spingono a pensare da un punto di vista diverso da come sono abituata a vedere le cose. Mi stimolano la mente. Inoltre, mi piaceva l’idea che la gente potesse agire in maniera diversa; mi piaceva studiare le altre culture esistenti qui sulla Terra «culture differenti da quella tradizionale del mondo occidentale» o immaginarne qualcuna su un mondo completamente alieno, in qualche parte dell’universo. È tremendamente eccitante. È meraviglioso, e stimola l’immaginazione… Come faccio a creare una società aliena? Be’, tendo a usare il mio “background” antropologico, perché mi viene sempre molto utile nel preparare lo schema base. Prima di tutto immagino un’etnografia per la società, uno schema base dell’ambiente fisico, delle strutture economiche, fondato sulle risorse naturali del luogo; studio quale tipo di società potrebbe funzionare in quella situazione, quale struttura economica e quale religione potrebbe avere, e così via. Spesso prendo pezzi di società di cui ho letto e li combino con pezzi di un’altra per creare una società nuova che abbia elementi di entrambe. Per esempio, un sistema a caste da una società e una tendenza imperialistica da un’altra. In questo modo posso inventare società che non sono mai esistite sulla Terra, ma che sono riconoscibili e comprensibili al lettore comune”.