Udì un rumore nel corridoio, e sollevò la faccia dallo stipite, mentre Rusty era sempre accucciato fra le sue braccia. Vide Clewell che la fissava dalla soglia della sua stanza, con indosso solo una paio di calzoncini corti.
«Betha… ti senti bene?»
«Sì… sì, sono solo stanca, Pappy.» Stanca di ricordare in continuazione. Come può un dolore improvviso trasformare in pena tutta la mia gioia? Lo fissò a sua volta, e scorse in lui la stessa desolazione, la stessa ferita che la tormentava. Sentì la paura ridestarsi. Oh, Clewell, fa’ che non perda anche te. «Posso… dividere la tua stanza, stanotte?»
Lui annuì. «Ti prego. Non potrei dormire neanch’io, da solo.»
Lo seguì nella sua stanza, e nell’oscurità si sbottonò la modesta camicetta di cotone, si tolse le scarpe e i pantaloni. Poi s’infilò nel sacco a pelo matrimoniale accanto a lui, tra le sue braccia, e l’abbracciò riconoscente in un gesto di lunga familiarità. Clewell non era stato il suo primo marito, ma suo amico per più anni di quanto ora riuscisse a ricordare. Quando era nata lui aveva ventisette anni, ed era uno dei suoi tanti zii, ma fin dall’infanzia era stato il suo parente preferito, fra tutti quelli della sua numerosa famiglia. Prima di diventare navigatore sul Ranger era stato astronomo; aveva viaggiato da Borealis lungo il gelido perimetro del giorno, attraverso il Mare Boreale e i ghiacciai frastagliati del lato oscuro fino al suo osservatorio perduto nella notte eterna. Qualche volta l’aveva portata con sé per una breve vacanza, a vedere le stelle, libera dai doveri e dalle responsabilità di clan ai quali perfino una bambina, su Mattino, non poteva sfuggire.
All’età di quindici anni Betha se n’era andata per il suo addestramento tecnico, poi aveva intrapreso il suo primo lavoro come ingegnere in un impianto di produzione sul confine deserto di Hotspot, in piena luce solare. Si era innamorata di Eric e lo aveva sposato; dopo un po’ erano ritornati all’emisfero di Borealis. Betha era rientrata nella vita di Clewell come una donna matura, e insieme a Eric era stata invitata a unirsi alla famiglia di lui.
La società di Mattino si basava sulla famiglia a matrimonio multiplo, e i legami di parentela ne costituivano la forza e la sicurezza. Il matrimonio fra i membri di un clan — la famiglia formata da genitori, figli e nipoti — era un tabù sociale; ma all’esterno del clan centrale, cugini, zii e nipoti si sposavano liberamente, essendo talmente numerosi che il controllo culturale e biologico si stabiliva automaticamente. Un matrimonio poteva avvenire fra una singola coppia o fra una dozzina di persone, e ciascuna famiglia si sceglieva le sue regole di vita. In una grande famiglia le amicizie speciali fra i componenti erano frequenti: o il gruppo si adattava nella sua totalità, oppure ne scaturiva un sottogruppo. I matrimoni costituivano l’occasione per una festa generale, ma era comune anche il divorzio, una faccenda privata all’interno del gruppo familiare. Tre dei membri della famiglia di Clewell (che Betha aveva conosciuto come bambini) avevano divorziato dal resto del clan, e la sua prima moglie era morta precedentemente all’ingresso di Betha ed Eric nel gruppo; Claire e Sean erano giunti poco dopo.
Betha ricordò la breve, intensa cerimonia del matrimonio, e le straordinarie feste di ogni genere che erano seguite in famiglia. Su Mattino tutti amavano le feste, perché per la maggior parte del tempo avevano ben poco da festeggiare. E ora ce ne sarebbero state ancor meno, sia che il Ranger fosse riuscito a ritornare oppure no…
Betha si rese conto che la mano di Clewell si muoveva lentamente, con tenerezza lungo il suo fianco. Ma la calda, istintiva risposta di metà di una vita era morta in lei. Affondò la faccia nel cuscino, e le parole le uscirono a fatica. «Oh, Clewell, non posso… non posso. Non ancora. Mi dispiace tanto…»
Le braccia di lui tornarono a consolarla. «No, Betha… va tutto bene. Era solo questo che volevo. Solo stringerti.»
La donna sentì Rusty agitarsi tra i loro piedi in fondo al letto. Si strinse ancor più al corpo di Clewell, abbracciandolo forte, e dal ricordo scivolò nel sonno.
LANSING 04 190 CHILOSECONDI
La notte si allungava come il silenzio oltre i loro occhi in cerca di qualcosa, e la sua smisurata indifferenza screziata di stelle li confortò. Erano dei recuperatoli, che raccoglievano le ossa dei mondi; la notte dava loro rifugio perché non emetteva giudizi, ed essi le erano grati della sua amoralità.
Shadow Jack scrutò la notte, o la sua immagine nello schermo… a volte, nel grembo buio e chiuso dell’astronave, la sua mente si offuscava, e la realtà cominciava a confondersi con l’immagine. Allungò le gambe e si grattò, poi si lisciò all’indietro i capelli sporchi che gli scendevano fin sugli occhi, capelli neri come la notte che vedeva davanti a sé sullo schermo. Un occhio era verde e l’altro blu; entrambi erano iniettati di sangue, e la sua testa pulsava con il battito del cuore. Il livello del diossido di carbonio nella cabina superava abbondantemente il tre per cento, ma lui da tempo aveva smesso di far caso all’odore. Si sistemò più comodamente sul sedile, fissando un puntolino errante conficcato nell’oscurità, l’unica stella che non era una stella, ma qualcosa di infinitamente più piccolo, e di infinitamente più prezioso.
«Credo che siamo abbastanza vicini da poter iniziare il controllo.»
Gli giunse la voce di Bird Alyn, come al solito appena udibile, perfino nello spazio tranquillo che li separava. Shadow Jack deglutì un paio di volte, cercando di inumidirsi la gola per parlare. «Bene. Comincia pure l’analisi.»
Lei protese la mano destra, tenendo la sinistra inabile sollevata in aria, e programmò il computer da ricognizione che avrebbe iniziato una nuova analisi. Shadow Jack osservò le lunghe dita dalle unghie sporche e spezzate che si muovevano sulla tastiera scintillante, poi guardò per la decimillesima volta la cabina squallida e soffocante; e ancora gli parve un miracolo essere riuscito a trasformare quel guscio di rottami di ferro saldati fra loro in una nave che rivaleggiava con la bellezza tecnologica dell’unità da ricognizione. Quasi per scusarsi, ripulì con la manica sfilacciata le impronte digitali sul pannello lucido. L’unità di ricognizione era il bottino di un’opera di recupero, una cosa più preziosa della sua stessa vita, poiché offriva al suo intero mondo un’occasione di sopravvivenza. Prima della guerra civile era stata un’unità di ricerca programmata per l’analisi laser e radar dei metalli, delle sostanze organiche e dei gas volatili degli asteroidi. Adesso analizzava le cose vecchie invece di quelle nuove, frugando in mezzo ai rifiuti della morte in cerca di prodotti lavorati e allungando così la vita di coloro che erano ancora vivi. Insieme a Bird Alyn osservò pazientemente il quadro indicatore, studiando le cifre che prendevano forma sullo schermo lucido e piatto…
«Niente» disse Bird Alyn. «Nessun riflesso metallico, nessuna radiazione, nessun gas di scarico lungo la superficie… niente, niente, niente. Là dentro non c’è mai stato essere vivente…»
«Sempre niente!» Diede un colpo contro il vetro spesso e scuro dell’oblò, quasi a voler colpire un universo che sfuggiva al suo controllo.
«Andrà meglio la prossima volta, forse. E poi può darsi che qualcun altro abbia trovato ciò che serve. La nostra non è l’unica nave…» La sua voce si affievolì.
«Lo so!» L’esclamazione fu così violenta da ferire i suoi stessi orecchi. Sollevò le mani, quasi per scusarsi. «Mi spiace. Ho la testa che mi scoppia.»
«Anch’io.»
Lui la guardò. Non era un rimprovero: i suoi occhi cerchiati di rosso erano dolci, prima che lei li abbassasse e l’arruffata matassa dei suoi capelli castani li nascondesse alla vista. Il naso era spruzzato di lentiggini, castane anch’esse, come i capelli e gli occhi e il colorito del volto, ma più scure. «Pensi che ci sia dell’acqua?»