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Ma l’avevano fatto.

Parlarono con Jim Sidney. Lui dovette chiamarli due volte, prima di farsi sentire, ma era la prima volta, ed egli fu paziente. E Len lo seguì verso la grande massa dell’impianto a vapore, sentendosi minuscolo e insignificante in mezzo a quell’immane potenza. Strinse i denti, e gridò silenziosamente, dentro di sé, È solo perché ho paura che provo questo, e supererò il momento, come ha detto Sherman. Gli altri non hanno paura. Sono uomini, come tutti gli altri, bravi uomini che credono di agire bene, che fanno quello che il governo disse loro di fare. Imparerò. La nonna avrebbe voluto questo da me. Me l’ha detto: non avere mai paura di conoscere, e io non avrò paura.

Non avrò paura. Diventerò una parte di tutto questo, contribuirò a liberare il mondo dalla paura. Devo credere, perché adesso sono qui, e non c’è altro che io possa fare.

No, non così. Devo credere perché è giusto. Imparerò a capire che è giusto. Ed Hostetter mi aiuterà, perché io posso fidarmi di lui, e lui dice che questo è giusto.

E Len si mise al lavoro, al fianco di Esaù, all’impianto a vapore, e per tutto il resto della giornata non guardò il muro del reattore. Ma poteva sentirlo. Poteva sentirlo nella carne e nelle ossa e nel formicolare del suo sangue, e lo sentiva ancora quando ritornò a Fall Creek e si mise a dormire nel proprio letto. E lo sognò quando riuscì infine ad addormentarsi.

Ma non c’era via di scampo. Ritornò al lavoro, il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, e regolarmente nei giorni che seguirono, salvo la domenica, quando andava in chiesa e faceva lunghe passeggiate al pomeriggio insieme a Joan Wepplo. Andare in chiesa era rassicurante, per lui. Era un vero conforto ascoltare dal pulpito che Dio benediceva i loro sforzi, e che essi dovevano solo mantenersi fermi e pazienti e non perdersi d’animo. Questo lo aiutava a pensare che quello che faceva fosse davvero giusto. E il trattamento di Sherman pareva funzionare, in un certo senso. Ogni giorno il terrore di essere vicino a quel muro spaventoso diminuiva, forse perché i nervi eccitati di continuo diventavano insensibili. Riuscì a guardare i nervi di cemento, allora, e a pensare con calma a quello che c’era dietro. Riuscì a imparare qualcosa sugli strumenti che si trovavano su di essa, gli strumenti che misuravano l’energia che veniva prodotta là dentro, e poté apprendere qualche elemento superficiale, da profano, sulla natura di quell’energia, e sul modo in cui funzionava, e gli fu spiegato anche perché, in quella forma, poteva essere così facilmente controllata. Poteva andare avanti così per diversi giorni, a volte, ridendo e chiacchierando con Esaù, scherzando su quello che avrebbero pensato a Piper’s Run se li avessero visti in quel momento… il signor Nordholt, il maestro di scuola, che credeva di sapere tante cose, e impartiva così parsimoniosamente la sua conoscenza per timore di corrompere l’animo dei giovani, e gli altri anziani della città, capaci di frustare a sangue un ragazzo per avere posto delle domande, e, be’, sì, anche papà e lo zio David, la cui risposta era la cinghia. No, questo non valeva per papà, e Len sapeva benissimo che cosa avrebbe detto papà, e non voleva pensarci, era un argomento che preferiva sorvolare. Così rivolgeva i suoi pensieri al giudice Taylor, che aveva fatto uccidere un uomo e bruciare un paese per paura che esso potesse diventare un giorno una città, e pensava, vendicativo, che gli sarebbe piaciuto dire al giudice Taylor che cosa c’era sotto le rocce di Bartorstown, e osservare l’espressione del suo viso, allora.

E io non ho paura, pensava. Avevo paura, sì, ma adesso è passata. È soltanto una forza naturale, come tutte le altre forze della natura. Non c’è nulla di malvagio, in questa energia atomica, non più di quanto possa esserci malvagità in un coltello, o in una sacca di polvere da sparo. Il male sta soltanto nel modo in cui la forza viene usata, e noi faremo in modo che nessuno possa più fare del male con essa, mai più. Noi. Noi, uomini di Bartorstown. E, oh, Dio, le notti di freddo e di brividi lungo le rive dei torrenti nebbiosi, i giorni di caldo soffocante e di zanzare e moscerini a stormi, e di fame, gli inverni passati in strane comunità, e tutti i giorni e le notti e gli anni durante i quali abbiamo sognato di diventare uomini di Bartorstown!

Ma il sogno era diverso, allora. Era tutto lucente e colorato e splendido, come lo aveva raccontato la nonna, e non c’erano tenebre in esso.

Continuava così per giorni e giorni, e a un certo punto pensava: Ora finalmente ho vinto le mie paure.

E poi si svegliava urlando nel cuore della notte, e Hostetter lo scuoteva, per strapparlo dall’incubo.

«Cosa stavi sognando?» domandava Hostetter.

«Non so. Un incubo, penso». Si alzava e andava a prendere un bicchiere d’acqua, e aspettava che il sudore e il tremito si quietassero. E poi domandava, con noncuranza, «Ho detto qualcosa?»

«No, almeno non ho sentito niente, all’infuori del grido. Ti lamentavi».

Ma poi si accorgeva che Hostetter lo fissava, con espressione intenta e pensierosa, e si domandava se lui non sapesse benissimo la natura del suo incubo.

Le paure di Esaù erano acque meno profonde di quelle nelle quali navigava lo spirito di Len. Si trattava, quasi esclusivamente, di paura fisica, e quando egli fu pienamente convinto che nessuna forza invisibile avrebbe bruciato il suo corpo e le sue ossa, diventò molto indifferente, quasi noncurante, e parve considerare il reattore come una sua proprietà, qualcosa che lui stesso aveva costruito. Len gli domandava:

«Non ti ha mai preoccupato… voglio dire, non hai mai pensato che se il reattore non fosse stato tenuto in funzione, qui, non ci sarebbe nessun bisogno di trovare una risposta…».

«Hai sentito cosa ha detto Sherman. Potrebbero esisterne degli altri. Forse nelle mani del nemico. E allora, cosa accadrebbe?»

«Ma se questo fosse l’ultimo reattore del mondo?»

«Be’, non fa male a nessuno. E poi, Sherman ha detto che se anche fosse così, non avrebbe importanza, perché qualcuno potrebbe riscoprire l’energia atomica e tutto il resto».

Forse no, forse mai. Forse lo dice solo per giustificarsi. Hostetter aveva usato una parola, per definire questo… razionalizzazione. In ogni modo, questo sarebbe accaduto tra molto, molto tempo. Altri cento anni, forse duecento, forse ancora di più. Non sarò vivo, per vedere quel giorno.

Esaù rise:

«La mia donna è veramente un fenomeno».

Stavano chiacchierando, come sempre, durante il lavoro. Len non vedeva molto Amity: e quando la vedeva, i loro rapporti erano freddi. C’era un senso di gelo, tra loro, una specie di reciproco imbarazzo che non facilitava le conversazioni amichevoli. Così domandò a Esaù:

«Perché lo dici?»

«Be’, quando ha saputo di questa faccenda dell’energia atomica, ha avuto una crisi terribile. Si è messa a piangere, ha detto che avrebbe perduto il bambino, ha detto che era orribile. E vuoi sapere una cosa? Adesso ha stabilito che si tratta solo di una grossa bugia, per farle credere che qui sono tutti terribilmente importanti, e dice di averne le prove».

«Quali?»

«Il fatto che tutti sanno che cosa produce l’energia atomica, e che se ce ne fosse, qui, non rimarrebbe questa gola, ma solo un grosso cratere nero, come raccontava il giudice».

«Oh,» disse Len.

«Be’, lei è contenta così. Così io non discuto. A che servirebbe? In fondo, lei non sa niente di queste cose, non le capisce». Si fregò le mani, e sogghignò. «Spero proprio che mio figlio sia un maschio. Forse io non riuscirò a imparare abbastanza, per far funzionare la grande macchina, ma lui potrà riuscire. Al diavolo, potrebbe essere addirittura lui a trovare la risposta!»