Erdmann disse:
«Cosa vuoi che faccia per te, allora?»
«Be’, sottoporre di nuovo le equazioni, per correggerle. Poi avremo la risposta, Frank. La risposta!»
Erdmann si inumidì le labbra.
«Ma se ha commesso un errore una volta, potrà commetterne un altro, Julio. Perché non chiedi a Wentz o a Jacobs…»
«No. Impiegherebbero l’intero inverno… forse un anno. Clementina può fare tutto subito, ora. L’hai provata. L’hai detto tu. Hai detto che va liscia come l’olio. È per questo che ho voluto venire qui oggi, mentre è ancora fresca e pronta, non è stata ancora usata dopo la revisione. Ora non può commettere lo stesso errore. Avanti, sottoponi le equazioni».
«Io… bene,» disse Erdmann. «Va bene, Julio».
Si avvicinò al meccanismo e cominciò a trasferire i dati su nastro. Gutierrez aspettò. Indossava ancora il pesante giaccone che aveva usato fuori, nella neve, ma non pareva trovarlo scomodo, né avvertire il caldo dell’ambiente. Osservava Erdmann, e di quando in quando fissava il computer e sorrideva e annuiva, come un uomo che ha colto in errore una persona molto presuntuosa, e vuole godersi fino all’ultimo la propria rivincita. Len si era ritirato ai margini della stanza, cercando di svanire sullo sfondo della scena. Non gli piaceva l’espressione di Erdmann. Cominciò a domandarsi se non avrebbe fatto bene ad andarsene, e poi le luci sui pannelli cominciarono ad ammiccare e a brillare, e la voce sommessa ronzava e mormorava e ticchettava, e Len fu affascinato come Esaù, e non poté più muoversi.
Trasalì, quando Erdmann si rivolse a loro, dicendo:
«Sarò libero tra un momento. Allora potrò rispondere alle vostre domande».
«Preferite che ritorniamo più tardi?» domandò Len.
«No,» disse Erdmann, lanciando un’occhiata di sbieco a Gutierrez. «No, restate qui».
Clementina cominciò a riflettere, borbottando sommessamente tra sé. A parte quel rumore di sottofondo, nella stanza c’era un grande, bizzarro silenzio. Guttierez era calmo, diritto, con le mani conserte, in attesa. Erdmann appariva teso e nervoso e malinconico. C’erano delle goccioline di sudore sul suo viso, e continuava ad asciugarsele, passandosi la mano sulla bocca e sulla fronte e guardando Gutierrez con un’espressione di totale disperazione.
«Ho paura che durante la revisione abbiamo trascurato alcuni circuiti, Julio. Non è stata revisionata completamente. Può darsi che…»
«Parli come mia moglie,» sorrise Gutierrez. «Non preoccuparti, la risposta uscirà».
Si udì il ticchettio che preannunciava la risposta. Erdmann fece un passo avanti. Gutierrez lo scostò con una gomitata, e strappò la striscia di carta dalla fessura, e guardò la risposta. Il suo volto si oscurò, e poi tutto il colore scomparve dalle sue guance, lasciandolo livido e grigiastro e scosso, e le sue mani cominciarono a tremare.
«Che cosa hai fatto?» domandò a Erdmann. «Che cosa hai fatto alle mie equazioni?»
«Niente, Julio».
«Guarda che cosa ha detto! Nessuna soluzione, ricontrollare i dati per eventuali errori. Nessuna soluzione. Nessuna soluzione…»
«Julio. Julio, per favore. Ascoltami. Hai lavorato per troppo tempo, su questo progetto, sei stanco. Ho sottoposto le equazioni alla macchina esattamente come me le hai fornite, ma le equazioni…»
«Le equazioni? Avanti, dillo, Frank. Avanti!»
«Julio, per favore,» ripeté Erdmann, con un’aria smarrita, e tese la mano a Gutierrez, come si fa con un bambino per chiedergli di venirci accanto.
Gutierrez lo colpì, lo colpì così repentinamente, e così violentemente, che Erdmann non ebbe né il tempo né il modo di evitarlo. L’ingegnere elettronico indietreggiò di tre o quattro passi, vacillando, e cadde sul pavimento, e Gutierrez disse, con voce terribilmente calma:
«Siete contro di me, tutti e due. Vi siete accordati, voi due, in modo che lei non mi desse mai la risposta giusta, qualunque cosa io avessi fatto. Ho pensato a te per tutto l’inverno, Frank, chiuso qua dentro con lei, ridendo, perché lei sa la risposta e non vuole dirmela. Ma la costringerò a parlare, Frank. Gliela farò sputare, la risposta».
Aveva dei sassi nelle tasche. Per questo non aveva voluto togliersi il giaccone, nell’ambiente riscaldato di Bartorstown. Aveva raccolto molti sassi, grossi e aguzzi e pesanti, e li tirò fuori, uno dopo l’altro, e li lanciò uno a uno contro Clementina, gridando, con gioia selvaggia:
«Te lo farò dire, puttana, lurida puttana traditrice, lurida puttana bugiarda, te lo farò sputare!»
Il cristallo sul pannello di comando si frantumò tintinnando. Scintille indicarono l’inizio di una serie di corti circuiti. Uno dei grandi recipienti di cristallo che contenevano una parte della memoria di Clementina si aprì. Frank Erdmann si rialzò dal pavimento, vacillando, gridando a Gutierrez di fermarsi, chiedendo aiuto. E Gutierrez aveva finito i sassi, ora, e cominciava a picchiare i pugni sui pannelli, scalciando e picchiando, urlando, «Puttana, puttana, puttana! Te lo farò dire, parlerai, hai preso la mia vita, la mia mente, il mio lavoro, hai chiuso tutto dentro di te, te lo farò dire!»
Erdmann era alle sue spalle, lo aveva afferrato, cercava di fermarlo.
«Len, Esaù, per l’amor di Dio, aiutatemi. Aiutatemi a tenerlo».
Len si fece avanti, lentamente, muovendosi come un sonnambulo. Alzò le braccia e strinse le spalle di Gutierrez. Gutierrez era molto forte, era difficile trascinarlo via dal pannello devastato, e ora c’erano delle nuove luci che lampeggiavano e ammiccavano, luci rosse che dicevano, Sono ferita, aiutatemi, sono ferita, aiutatemi. Len guardò quelle luci, e guardò negli occhi Gutierrez. Erdmann ansava. C’era del sangue che usciva da un angolo della sua bocca.
«Julio, ti prego, non fare così, calmati. Ecco, così, Len, un po’ più indietro, ora… Va tutto bene, Julio, ti prego, stai calmo».
E Julio si calmò, improvvisamente. Non ci fu alcuna transizione. Un attimo prima i suoi muscoli sòlidi come roccia lottavano come furie contro la stretta di Len, e un secondo più tardi si afflosciò inerte, vacillante, debole, come un sacco vuoto e floscio. Si voltò a fissare Erdmann, e disse, con infinita rassegnazione:
«Qualcuno è contro di me, Frank. Qualcuno è contro noi tutti».
Le lacrime gli scendevano copiose lungo le guance. Stava inerte in mezzo a Len e a Erdmann, che lo sorreggevano, e piangeva, e Len guardava Clementina, che ammiccava con gli occhi di sangue, chiedendo aiuto.
Trova il tuo limite, aveva detto il giudice Taylor. Trova il tuo limite, prima che sia troppo tardi.
Io ho trovato il mio limite, pensò Len. Ed è già troppo tardi.
Arrivarono degli uomini e lo sollevarono del suo fardello. Scese con Esaù nelle viscere della roccia, e lavorò per tutto il giorno, con un volto vuoto e impassibile come il muro di cemento, e altrettanto ingannevole, perché dietro di esso c’erano violenza e terrore, e sgomento del cuore.
Nel pomeriggio il bisbiglio percorse la fila delle grandi macchine. Lo hanno portato a casa, avete sentito, e il dottore dice che non ha più speranza. È spacciato. Dicono che dovrà restare rinchiuso, dovrà essere continuamente sorvegliato da qualcuno.
Come tutti noi, rinchiusi dalle pareti della gola, pensò Len, per servire questo Moloch con la testa di bronzo e le viscere di fuoco. Questo Moloch che oggi ha distrutto un uomo.
Ma lui conosceva la verità, infine, e la rivelava a se stesso.
Non ci sarà risposta.
E, Signore, liberami dal giogo dei miei nemici, perché io mi pento, con il capo cosparso di cenere. Ho seguito le vie di falsi dèi, ed essi mi hanno tradito. Ho mangiato il frutto, e la mia anima è malata.
Il cuore di fuoco continua a battere dietro il muro, e lassù il cervello viene già curato e guarito.