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«Appena l’alba.»

«Da quanto tempo l’avete trovato?»

«Un quarto d’ora. Ho immobilizzato il ricognitore e mi sono precipitato da voi. Ma non volevo svegliarvi di soprassalto, così…»

«Va bene, va bene.» Boardman saltò giù dal letto. Barcollò leggermente, mentre si metteva in piedi. Non aveva ancora ritrovato il pieno vigore diurno, e ora mostrava la sua vera età. «Andiamo» disse. «Libera il ricognitore. Voglio vedere Muller subito.»

Usando il terminale che stava all’ingresso, Ned riportò in vita il ricognitore. Lo schermo mostrò di nuovo la zona A, che aveva un aspetto più confortevole degli altri. Muller, però, non c’era più.

«Dev’essere uscito dal campo visivo» disse Rawlins. Fece girare il ricognitore su se stesso, ottenendo così una veduta di basse case cubiche, di archivolti e di muri a gradinate. Un animaletto che pareva un gatto fuggì. Ma di Muller, nessuna traccia.

«Era proprio là» insiste Rawlins, desolato. «Era…»

«Ho capito. Non era obbligato a restarsene lì come una statua, mentre tu venivi a svegliarmi. Fai circolare il ricognitore.»

Rawlins ubbidì, e fece compiere al robot una breve esplorazione della strada. A un tratto, Muller uscì da un edificio senza finestre e si piantò a gambe larghe davanti all’apparecchio.

«Ancora!» disse. «Sei risuscitato? Perché non parli? Da che nave vieni? Chi ti ha mandato?»

«Dobbiamo rispondere?» domandò Ned.

«No.»

La faccia di Boardman toccava lo schermo. Allontanò la mano di Rawlins dai comandi e cominciò a manovrare la sintonia da sé; improvvisamente la figura di Muller balzò in pieno rilievo, vivida. Il ricognitore continuava a muoversi lentamente davanti all’uomo, come per attirare la sua attenzione e impedirgli di allontanarsi ancora.

A voce bassa, Boardman disse:

«Spaventosa! L’espressione della sua faccia…»

«A me sembra abbastanza normale» disse Ned.

«Come fai a saperlo? Io me lo ricordo, quell’uomo. Ned, quella è la faccia di un uomo scampato all’inferno. Gli zigomi sono molto più sporgenti di prima, lo sguardo è terribile, e non vedi la piega della bocca, a sinistra? Sembra quasi che abbia avuto una leggera paralisi. Comunque, nei suoi occhi c’è ancora forza, tanta forza.»

Muller seguiva lentamente il ricognitore, parlandogli con voce cavernosa, rauca: «Hai trenta secondi per dirmi perché sei venuto qui. Poi ti consiglio di fare dietrofront e di tornare da dove sei venuto.»

«Non gli volete parlare?» chiese Rawlins. «Distruggerà l’apparecchio.»

«Faccia pure» disse Boardman. «La prima persona che gli rivolgerà la parola dev’essere un uomo in carne e ossa, e dovrà trovarsi a faccia a faccia con lui. Bisogna fargli la corte, Ned.»

«Dieci secondi» disse Muller.

Frugò in tasca e ne tolse un globo di metallo nero delle dimensioni di una mela, con un finestrino quadrato da una parte. Rawlins non aveva mai visto niente del genere: forse era qualche arma sconosciuta che Muller aveva trovato nella città. Con uno scatto l’uomo alzò la sfera e orientò l’apertura verso il muso del ricognitore.

Lo schermo si spense.

«Abbiamo perso un altro robot» disse Rawlins.

Boardman annuì. «Sì, e non sarà l’ultima perdita. D’ora in poi dovremo rischiare altre perdite. Umane, questa volta.»

9

Ormai avevano la pianta completa del labirinto. Il cervello della nave conservava uno schema particolareggiato del percorso che conduceva all’interno e di tutti i trabocchetti e le insidie. Boardman riteneva di poter inviare ricognitori con novantacinque probabilità su cento di raggiungere la zona A intatti. Che un uomo fosse in grado di fare lo stesso, era ancora da vedere. Anche con un calcolatore che gli suggerisse gli spostamenti passo per passo, poteva darsi che l’uomo, filtrando le informazioni attraverso il proprio cervello tutt’altro che infallibile, e vulnerabile alla fatica, non vedesse le cose allo stesso modo di un ricognitore, e si permettesse alterazioni che potevano essergli fatali. Perciò bisognava controllare accuratamente i dati prima di mandare avanti un essere umano.

Comunque, tra l’equipaggio c’erano già diversi volontari.

Sapevano che molto probabilmente ci avrebbero lasciato la pelle: nessuno aveva cercato di ingannarli, e per loro andava bene così. Gli avevano detto che per il bene dell’umanità era indispensabile far uscire Richard Muller — volontariamente — dal labirinto, e che questo lo si poteva ottenere più facilmente se due esseri umani in carne e ossa, cioè Charles Boardman e Ned Rawlins, fossero riusciti a parlargli personalmente; e poiché Boardman e Rawlins erano due individui insostituibili, era pertanto necessario che altri esplorassero il percorso prima di loro. Benissimo. Gli esploratori erano pronti a dare la propria vita.

E molti la persero.

L’uomo scelto per il primo tentativo era un sottotenente chiamato Burke, sicuramente tanto giovane quanto dimostrava il suo aspetto: raramente i militari si sottoponevano alla rigenerazione prima di avere raggiunto gli alti gradi. Era piccolo, robusto, scuro di capelli. Si comportava come se a bordo fossero in grado di sostituire un Burke con un altro: come se fosse un robot.

«Quando troverò questo Muller» disse Burke, e disse proprio «quando», non «se» «gli dirò che sono un archeologo. E che se non gli spiace vorrei che mi raggiungessero alcuni compagni.»

«Sì» approvò Boardman. «E ricordatevi che meno particolari gli darete, meglio sarà. Parlando troppo lo mettereste in sospetto.»

Burke non sarebbe vissuto abbastanza per parlare con Muller, lo sapevano tutti. Ma lui si avviò agitando allegramente una mano in segno di saluto, e si inoltrò nel labirinto. Un apparecchio, fissato alle spalle, lo teneva in collegamento col cervello della nave. Il calcolatore gli avrebbe trasmesso gli ordini relativi al percorso da compiere e avrebbe mostrato agli altri tutto quello che sarebbe accaduto.

Passò brillantemente incolume attraverso le insidie della zona H. Non possedeva il corredo di dispositivi sensori che avevano aiutato i ricognitori a individuare le pietre-catapulta, le voragini mortali, i getti di energia nascosta, e tutti gli altri trabocchetti da incubo. Portava, però, con sé qualcosa di assai più utile: le informazioni raccolte da un’infinità di ricognitori che l’avevano preceduto. Osservando lo schermo, Boardman vedeva apparire cose diventate familiari: i pilastri, i bastioni, le scarpate, i ponti aerei, i mucchi di ossa, e, ogni tanto, i resti di un ricognitore distrutto.

Burke ci mise quasi quaranta minuti per passare dalla zona H alla G. Finora il sistema aveva funzionato. L’uomo eseguiva una specie di macabra danza, aggirando gli ostacoli, contando i passi, facendo un balzo in avanti, spostandosi di fianco, allungando al massimo una gamba per evitare qualche tratto di pavimentazione infida. Ma il calcolatore non era in grado di metterlo in guardia anche contro l’animaletto dai lunghi denti, in agguato sopra un davanzale dorato, una quarantina di metri dentro la zona G. Si trattava di un pericolo imprevisto, non segnato sulla mappa.

L’animale non era più grosso di un gatto, ma aveva zanne lunghe e artigli acuminati. L’obiettivo sistemato sulle spalle di Burke lo vide mentre spiccava il salto, e ormai era troppo tardi. L’uomo fece l’atto di voltarsi, mettendo mano all’arma che aveva con sé, ma la bestia gli era già balzata sulle spalle e gli cercava la gola.

Burke rotolò a terra, avvinto all’animale che l’aveva assalito. Un rivolo di sangue cominciò a scorrere sul terreno. L’uomo e la bestia rotolarono due volte, avvinghiati, fecero scattare inavvertitamente qualche dispositivo nascosto, e scomparvero in una nube di fumo oleoso. Quando l’aria si rischiarò, di loro non c’era più traccia.

«Un’altra cosa dobbiamo ricordare» disse Boardman più tardi. «Gli animali non attaccano i ricognitori. Sarà meglio portare con noi alcuni rivelatori di massa, e viaggiare in squadra.»