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«E dov’è mai il posto del libero arbitrio, in questo vostro Universo meccanico?»

«Non esiste. Ecco perché l’Universo «puzza».»

«Siete sempre stato convinto di quello che dite adesso?»

«Per la maggior parte della mia vita, almeno.»

«Fin da quando avevate la mia età?»

«Anche da prima.»

Rawlins guardò lo schermo. «Andiamo» disse «sono stanco di aspettare.»

11

Muller li vedeva avvicinarsi sempre più, ed era stupito della propria calma. Aveva distrutto il ricognitore, e dopo non ne erano stati mandati altri, ma i suoi schermi mostravano gli uomini accampati nei settori periferici. Non riusciva a distinguere chiaramente le loro facce e neanche capiva che cosa stessero facendo, ma ne aveva contato una dozzina, più o meno. Alcuni si erano sistemati nella zona E, e un altro gruppo, più numeroso, in quella F. Ne aveva anche visti tre o quattro nelle zone pericolose.

Aveva la possibilità di attaccare in diversi modi. Per esempio, poteva inondare la zona E con l’aiuto dell’acquedotto: l’aveva già fatto una volta, inavvertitamente, e la città aveva speso un giorno intero per ripulirsi. Ricordava che, durante l’inondazione, la zona E era rimasta sigillata da paratie stagne per impedire che l’acqua ne uscisse. Se gli invasori non fossero annegati subito, certamente sarebbero finiti in qualche trabocchetto. Muller poteva fare molte altre cose per impedire agli intrusi di raggiungere il centro.

Ma non fece niente. Sapeva che alla base della sua inazione c’era il desiderio inconfessato di spezzare l’isolamento di quei lunghi anni. Per quanto li odiasse, per quanto li temesse, per quanto detestasse l’intrusione nella sua solitudine, permetteva loro di avanzare.

Muller aveva passato quasi un anno tra gli Hydrani, poi, vedendo che non concludeva niente, era rientrato nella sua capsula e aveva puntato verso il cielo, riprendendo possesso della nave rimasta in orbita. Se gli Hydrani possedevano una mitologia, certamente lui era entrato a farne parte.

Una volta a bordo, compì le manovre che l’avrebbero riportato sulla Terra. Mentre notificava la propria presenza al cervello elettronico della nave, si vide riflesso in una piastra di metallo brunito. Si spaventò. Gli Hydrani non possedevano specchi e Muller, per la prima volta, vide le rughe profonde incise sulla sua faccia. Ma non erano le rughe a preoccuparlo. Era piuttosto l’espressione curiosa, indefinibile, che scorgeva nei suoi occhi. Effetto della tensione pensò. Terminato di programmare il ritorno, se ne andò nella cabina medica e ordinò un abbassamento del tono nervoso, un bagno caldo e un massaggio. Quando uscì, i suoi occhi erano ancora strani, e aveva anche un tic facciale. Di questo si liberò facilmente, ma non poté fare niente per gli occhi.

L’astronave attinse energia dalla stella donatrice più vicina, e Muller, nel suo guscio di plastica e di metallo, intraprese il viaggio di ritorno.

Non aveva niente da fare. La nave uscì dall’iperspazio entro i limiti prescritti, vale a dire a centomila chilometri dalla Terra, e le luci colorate lampeggiarono sul quadro di comando, mentre la stazione spaziale più vicina segnalava i dati necessari all’accostamento.

«Adeguate la vostra velocità alla nostra, signor Muller, e vi manderemo a bordo un pilota che vi riporterà a Terra» disse il commissario di base.

La nave fece tutto da sé, e presto la cupola color rame della stazione fu in vista.

«Abbiamo un messaggio per voi dalla Terra» disse ancora la voce. «Charles Boardman vuole parlare con voi.»

«Passatemelo» disse Muller.

La faccia di Boardman comparve sullo schermo. Era rosea, ben curata e piena di salute. «Dick! Che piacere rivedervi!»

Muller azionò il tattile, e posò la mano sul polso di Boardman, attraverso lo schermo. «Salve, Charles. Una su sessantacinque, eh? Be’, eccomi qua.»

«Devo dirlo a Marta?»

«Marta?» Muller pensò un istante. Già. La ragazza coi capelli azzurri, i fianchi snelli e i tacchi a spillo. «Sì, avvertitela. Sarei contento se mi venisse incontro all’atterraggio.»

Boardman rise, poi chiese: «Com’è andata?»

«Male.»

«Avete stabilito dei contatti, però.»

«Ho trovato gli Hydrani. E loro non mi hanno ucciso.»

«Sì, ma…»

«Sono vivo, Charles.» Muller sentì il tic che ricominciava a pulsare. «Non ho imparato la loro lingua, e non posso dirvi se mi trovano simpatico o no. Sembravano alquanto interessati. Mi hanno osservato attentamente per molto tempo. Però non hanno mai detto una parola.»

«Sono telepatici?»

«Non sono in grado di dirvelo, Charles.»

Boardman tacque un istante, poi riprese: «Che cosa vi hanno fatto, Dick?»

«Niente.»

«Questo non è vero.»

«Sono soltanto stanco. In forma, ma con i nervi un po’ tesi. Ho voglia di respirare aria buona, di bere birra vera e di mangiare una bella bistecca. E vorrei un po’ di compagnia femminile. Poi tornerò come prima.»

«Che cos’avete fatto al vostro trasmettitore, Dick?»

«Perché?»

«La vostra voce è fortissima.»

«Sarà colpa della trasmittente. Ma cosa c’entra questo?»

«Non so. Sto soltanto cercando di capire perché urlate a quel modo.»

«Non sto urlando!» gridò Muller, esasperato.

Subito dopo la comunicazione fu interrotta e la stazione di collegamento avvertì Muller che erano pronti a mandargli un pilota. Lui aprì il portello e fece entrare l’uomo. Era un giovane biondo, la faccia che ricordava una civetta, e la pelle chiarissima. Appena si fu tolto il casco, disse: «Mi chiamo Les Christiansen, signor Muller, e voglio dirvi che considero un onore pilotare la nave del primo uomo che ha conosciuto una razza extra-terrestre. Spero di non essere indiscreto, ma vorrei pregarvi di raccontarmi qualcosa di quello che avete visto, mentre atterriamo. Questo è un momento storico: io sono il primo a venirvi incontro dopo il vostro ritorno e vi sarei grato se mi descriveste a grandi linee i momenti culminanti del vostro…»

«Credo di potervi raccontare qualcosa» disse Muller in tono cordiale. «Prima di tutto, avete visto il cubo degli Hydrani? So che ci si aspetta da me…»

«Vi dispiace se mi siedo un momento, signor Muller?»

«Fate pure.»

«Mi sento come ubriaco. Non capisco cosa mi sta succedendo.» La sua faccia era congestionata, e grosse gocce di sudore gli imperlavano la fronte. «Sto male.» Il pilota si gettò su una cuccetta di gommapiuma e si raggomitolò, tremando tutto, e coprendosi la testa con le mani. Muller esitò, sconcertato. Infine si chinò e prese l’uomo per un braccio per accompagnarlo nella cabina medica. Christiansen si ritrasse di scatto, come se l’avesse scottato. Quel movimento gli fece perdere l’equilibrio, e il ragazzo finì sul pavimento della cabina, come un mucchio di stracci. Poi si tirò su in ginocchio e si trasse faticosamente il più lontano possibile da Muller. Con voce soffocata domandò: «Dov’è?»

«Quella porta laggiù.»

Christiansen si precipitò nella direzione indicata, e chiuse in fretta e furia a chiave la porta della cabina medica, per essere certo che l’altro non lo seguisse. Muller, stupefatto, lo sentì singhiozzare. Stava per segnalare alla stazione che il pilota si sentiva male, quando la porta si riaprì, e il giovane disse con voce flebile: «Vi spiace darmi il mio casco, signor Muller?»