Lo accontentò.
«Devo tornare alla mia stazione, signore.»
«Sono spiacente di vedervi in questo stato. Spero di non essere portatore di qualche malattia contagiosa.»
«Non sono malato. Mi sento soltanto… disperato. Non so perché.» Christiansen si assicurò il casco. «Non ci capisco più niente. Ma ho una gran voglia di buttarmi su una cuccetta e di piangere. Vi prego, lasciatemi andare, signore! È… Io… cioè… È terribile quello che provo!» E così dicendo, scappò via dal portello. Muller, impietrito per lo stupore, lo vide attraversare velocemente lo spazio che lo separava dalla stazione.
Si precipitò alla radio. «È meglio che non mandiate subito un altro pilota» disse. «Christiansen si è sentito male subito, appena si è sfilato il casco. Può darsi che io sia portatore di qualche malattia contagiosa. Lasciatemi controllare.»
Il commissario di base, turbato, acconsentì. Poi pregò Muller di entrare nella sua cabina medica, di farsi rilasciare una diagnosi e di trasmettergliela immediatamente. Poco dopo, la faccia color cioccolato di un ufficiale medico apparve sullo schermo della nave e disse: «È molto strano, signor Muller. Ho letto il responso del vostro diagnosticatore e non ho rilevato alcun sintomo insolito. Ho anche messo Christiansen sotto osservazione senza scoprire niente. Si sente bene, ora. Mi ha detto che nel momento in cui vi ha visto si è sentito prendere da una crisi di depressione che si è aggravata rapidamente fino a trasformarsi in una specie di paralisi del metabolismo. Cioè, si sentiva così disperatamente depresso, che il suo organismo non riusciva più a funzionare.»
«Va soggetto ad attacchi del genere?»
«Mai avuti» rispose il medico. «Vorrei vedere con i miei occhi. Posso venire?»
Il medico non si comportò come Christiansen, ma neppure lui rimase a lungo, e quando si congedò, la sua faccia era bagnata di lacrime. Non era meno sconcertato di Muller. Venti minuti dopo, arrivò il nuovo pilota, che programmò la nave per l’atterraggio senza però togliersi lo scafandro. Sedette, rigido, davanti ai comandi, voltando le spalle all’astronauta e senza nemmeno rivolgergli la parola. Come richiesto dalla legge, fece abbassare la nave fino a che il suo sistema di propulsione fu sotto l’influenza di un regolatore per l’atterraggio, poi si alzò. Muller lo vide in faccia: teso, sudato, con le labbra serrate. Il pilota fece un cenno di saluto con la testa e uscì dal portello. Devo avere addosso una gran puzza pensò Muller, se riesce a sentirla chiuso com’è nello scafandro!
L’atterraggio si svolse regolarmente.
Appena arrivato, Muller si recò all’ufficio Immigrazione. Temeva che il diagnosticatore gigante dello spazioporto riuscisse a individuare qualche strana malattia che poteva essere sfuggita alle apparecchiature della nave e al medico della stazione di collegamento. Entrò nella macchina, che esplorò i reni ed estrasse alcune molecole dei vari fluidi corporei, e infine ne uscì senza che nessun campanello si mettesse a suonare e le luci di avvertimento si accendessero. Approvato. Poi si recò alla macchina della dogana. Da dove venite, viaggiatore? Dove siete diretto? Approvato. I suoi documenti erano in ordine. Allora una fessura appena visibile nella parete si allargò, diventando una porta, e lui uscì. Per la prima volta dopo l’atterraggio si sarebbe finalmente incontrato con un essere umano.
Boardman era venuto a prenderlo e con lui c’era Marta. Questa ora aveva i capelli corti e color verde-mare, si era argentata le palpebre e dorato il collo snello, e sembrava la statua di se stessa.
D’impeto, la mano di Boardman afferrò quella dell’astronauta in una stretta calorosa che però subito si allentò. La mano scivolò via, prima ancora che Muller avesse il tempo di ricambiare il saluto. «Sono felice di rivedervi, Dick!» disse Boardman senza convinzione, indietreggiando di due passi. Le sue guance si afflosciarono, strappate in giù come per effetto di una forte attrazione gravitazionale. Marta s’infilò tra i due uomini e si strinse a Muller, che però non ebbe il coraggio di baciarla. Gli occhi della ragazza erano splendidi, e lui ci si specchiò come in un lago limpido, ma le narici di lei fremevano, e si vedevano i muscoli irrigidirsi. Cercava di allontanarsi. «Dick» mormorò «ho pregato per te ogni sera. Non sai quanto mi sei mancato!» Muller sentiva che lei lottava duramente con se stessa e le sfiorò con la guancia l’orecchio delicato. «Dick» mormorò ancora Marta «mi sento così strana… così felice di vederti, che ne sono tutta sconvolta! Provo una sensazione indefinibile…»
Sì. Capiva. La lasciò.
Boardman, sudato e nervoso, si stava asciugando la faccia col fazzoletto e camminava su e giù tormentandosi le mani.
Dick non l’aveva mai visto in quello stato. «E se vi lasciassi un po’ soli, voi due?» propose, con voce stranamente forte. «Il tempo mi ha dato sui nervi, Dick. Parleremo domani. La stanza all’albergo è già prenotata.» E se ne andò quasi di corsa.
Muller si sentì prendere dal panico. «Dove andiamo?» chiese.
«C’è una taxicapsula, fuori. Alloggiamo allo Startport Inn.» Il labbro inferiore di Marta tremava leggermente, come se stesse masticando qualcosa. La prese per mano e salirono insieme sulla scala mobile che li portò fuori dalla sala d’aspetto, fino alla macchina in attesa. Avanti pensò, adesso dimmi che non ti senti bene. Che non capisci come mai da dieci minuti a questa parte ti senti terribilmente depressa!
«Perché ti sei tagliata i capelli?» chiese.
«È un mio diritto. Non ti piaccio, così?»
«Ti preferivo prima.» Entrarono nella capsula. «Lunghi, azzurri… come il mare in un giorno di vento.» La capsula partì.
Lei si teneva a una certa distanza, le spalle contro il portello. «Neanche il tuo trucco, mi piace. Scusami, cara. Vorrei poterti dire il contrario.»
«Mi ero fatta bella per il tuo ritorno!»
«Perché muovi così le labbra?»
«Muovo le labbra? Ma no…»
«Niente, lascia perdere» disse lui. «Eccoci arrivati. La stanza è già prenotata?»
«Sì, a tuo nome.»
Entrarono. Muller posò la mano sulla piastra di registrazione. Si accese una luce verde, e loro si avviarono all’ascensore. L’albergo si apriva al quinto livello sotterraneo dello spazioporto, e scendeva per quindici altri piani. La loro stanza era quasi in fondo. Hanno scelto bene pensò Muller. Forse è l’ala riservata agli appartamenti matrimoniali. Entrarono in una camera tappezzata di arazzi caleidoscopici, con un grande letto e tutti gli accessori necessari. La luce era discretamente abbassata. Muller pensò a tutti i mesi in cui aveva dovuto accontentarsi degli erotocubi, e le vene cominciarono a pulsargli. Lei gli passò davanti ed entrò nella stanza attigua, dove rimase a lungo.
Quando ne uscì, tutto il trucco se ne era andato e i capelli erano tornati azzurri…
«Come il mare» disse lei. «Mi spiace di non poterli far crescere, qui. La stanza non è programmata per questo.»
«Stai molto meglio, così!» Lui la guardò attentamente. «Gli Hydrani» disse «hanno quattro o cinque sessi, o forse nessuno. Non te lo saprei dire con certezza. Da questo potrai capire come sono riuscito a conoscerli nel tempo trascorso con loro. Comunque sia, sono certo che noi ci divertiamo di più. Perché te ne stai lì in piedi come una statua, Marta?»
Lei si avvicinò in silenzio. Tremava leggermente, come un animale spaventato. Muller appoggiò le labbra su quelle di lei, e le sentì aride, ferme, ostili. Sedettero uno accanto all’altro sulla sponda del letto, e vide che gli occhi le si riempivano di pena.