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«Piede sinistro. Piede destro. Piede sinistro. Piede destro. Spostati a sinistra strisciando leggermente il piede. Torna indietro verso destra. Bene. Riprendi ad avanzare.»

Ma il frutto proibito tentava Boardman. Per tutta la vita aveva cercato di vedere le cose chiaramente; l’attrazione che esercitavano su di lui le deformazioni era irresistibile. Si fermò, piantando saldamente i piedi in terra. Se vuoi uscire vivo da questo posto disse a se stesso, tieni gli occhi chiusi. Se li apri, è finita.

Rimase completamente immobile. La voce silenziosa del calcolatore lo incitò a proseguire.

«Aspettate» disse lui in tono pacato «se non mi muovo posso guardarmi attorno un attimo. Non può succedermi niente, se non mi muovo.»

Il cervello elettronico gli ricordò il getto di fiamma che aveva causato la morte di Marshall.

Boardman non gli diede retta, e guardò. Tutto quello che vedeva intorno a sé era la negazione della geometria. Si sentì assalire da un disgusto inesprimibile.

Hai ottant’anni e sai che aspetto dovrebbe avere l’Universo. Chiudi gli occhi, ora, Charles Boardman. Chiudi gli occhi e vai avanti. Stai correndo rischi inutili.

Dapprima pensò a Ned Rawlms. Il giovane era venti metri più oltre, e passava lentamente davanti allo schermo. Occhi chiusi? Ma certo. Ned era un ragazzo obbediente. O spaventato.

Boardman cominciò a sollevare la gamba destra, poi appoggiò di nuovo il piede sul selciato. A pochi passi da lui, vibrazioni di luce dorata serpeggiavano nell’aria, assumendo forme ora di cigno, ora di albero. La spalla sinistra di Ned era troppo alta, la sua schiena, incurvata. Una gamba andava avanti, l’altra indietro. Attraverso una nebbiolina dorata, Boardman vide il corpo di Marshall inchiodato al muro: gli occhi erano sbarrati. Guardando in quegli occhi, ci si vide riflesso: tutto naso, senza la bocca. Allora abbassò le palpebre.

Il calcolatore, soddisfatto, ricominciò a guidarlo.

All’estremità della passerella, Rawlins si fermò, e chiese al cervello elettronico se poteva riposare un poco. Il calcolatore disse di sì. Lentamente, Ned si abbassò, dondolò un momento sui calcagni e poi toccò con le ginocchia il selciato freddo. Guardò indietro: alle sue spalle erano ammucchiati, senza tracce di cemento nelle connessure, diversi blocchi giganteschi di pietra che, tutti insieme, raggiungevano un’altezza di cinquanta metri e fiancheggiavano una stretta apertura da cui era appena sbucato Charles Boardman. Charles era accaldato e grondava sudore.

Ned trovò la cosa divertente: non aveva mai visto il vecchio perdere la propria aria di sufficienza.

Neppure Rawlins, però, si sentiva molto sicuro di sé. I veleni metabolici ribollivano all’interno del suo organismo. Era talmente inzuppato di sudore, che i congegni della sua tuta dovevano lavorare il doppio per eliminare il liquido, distillare e volatilizzare il substrato di composti chimici.

Boardman lo raggiunse, e s’inginocchiò anche lui. Rawlins dovette dargli una mano perché non perdesse l’equilibrio.

«Muller è passato di qui da solo e ce l’ha fatta» mormorò Ned.

«Muller è sempre stato un uomo straordinario.»

«Come credete che abbia fatto?»

«Chiediglielo.»

«È quello che voglio fare. Forse domani a quest’ora starò chiacchierando con lui.»

«Gli altri presto ci verranno incontro. Devono averci individuati, ormai: certamente i loro rivelatori di massa hanno segnalato la nostra presenza. Forza, Ned! Andiamo.»

Si alzarono. Ancora una volta, Rawlins aprì la strada.

La zona F era meno caotica, ma l’ambiente era anche meno piacevole. Prevaleva uno stile architettonico sobrio, variato qua e là da costruzioni capricciose che generavano un contrasto di forme discordanti. Benché sapesse che i trabocchetti non erano più tanto numerosi, Rawlins aveva la sensazione che la terra potesse aprirglisi sotto i piedi da un momento all’altro. L’aria si era fatta più fresca e sferzante, come quella della pianura. A ogni crocevia si elevavano enormi vasche di cemento dove crescevano piante lanceolate leggere come piume.

«Che cosa vi è sembrato più terribile finora, Charles?»

«Lo schermo deformante.»

«Non era poi così pericoloso… Forse non vi andava di camminare con gli occhi chiusi in mezzo a tutte quelle insidie!»

«Ho guardato, Ned.»

«Nella zona di deformazione?»

«Solo per un attimo. Non ho potuto resistere.»

Rawlins sorrise. Avrebbe voluto congratularsi con Boardman per quel gesto sciocco, pericoloso, assolutamente umano, ma non osò. Disse soltanto: «Vi siete fermato, avete lanciato un’occhiata e poi avete ricominciato a camminare?»

«In un attimo di distrazione ho alzato un piede per muovere un passo, ma poi mi sono ricordato… Ho tenuto i piedi ben piantati in terra e mi sono guardato in giro.»

«Forse tenterò anch’io, al ritorno. Soltanto un’occhiata. Conoscendolo, ogni pericolo diventa meno pericoloso.»

«Certo, conoscendolo. Ma tu come fai a sapere se lo schermo agisce oppure no anche nella direzione opposta? Sulla strada del ritorno per intenderci.»

Rawlins corrugò la fronte. «Già, non ci avevo pensato. Finora, nessuno è ancora «uscito» dal labirinto, e quindi non sappiamo le insidie del ritorno. E se fosse tutto completamente diverso? E se restassimo bloccati qua dentro?»

«Ci serviremo ancora dei ricognitori. Non preoccuparti per questo. Quando saremo pronti per andarcene, ne chiameremo una squadra nella zona F, e controlleremo il percorso di uscita come abbiamo controllato quello d’entrata.»

Dopo una breve pausa, Rawlins disse: «Ma perché dovrebbero esserci altri trabocchetti? I costruttori del labirinto non volevano certo rinchiudersi nella loro città, ma semplicemente impedire ai nemici di entrare. Perché l’avrebbero fatto?»

«Chi può saperlo, Ned? Sono creature sconosciute.»

13

Poi Boardman si ricordò di non avere ancora chiesto a Ned quale fosse stato invece per lui il punto più difficile fino a quel momento. Si affrettò a informarsi.

«Il primo schermo» disse Rawlins «quello che mostrava tutte le cose cattive e indecenti che si agitano nella nostra mente.»

«Quale schermo?»

«Quello in fondo alla zona H. Un rettangolo dorato, assicurato con strisce metalliche a un muro alto. L’ho guardato e ci ho visto mio padre per un paio di secondi, e subito dopo una ragazza che conoscevo tempo fa e che si è fatta suora. Si spogliava e rideva.»

«Io non ho visto niente del genere.»

«Non poteva sfuggirvi. Era a una cinquantina di metri dal punto in cui avete ucciso il primo animale. Un po’ a sinistra, a metà del muro: era uno schermo rettangolare, incorniciato di metallo bianco, e sopra si muovevano dei colori, delle forme…»

«Ah, sì. Forme geometriche.»

«Io ho visto Maribeth che si stava spogliando» disse Rawlins, confuso. «E voi, soltanto forme geometriche?»

Anche la zona F nascondeva insidie mortali. Una piccola bolla color perla spuntata dal suolo si aprì, liberando un torrente di palline lucenti, che rotolarono verso Ned. Si avvicinarono con la perfida decisione di uno stuolo di formiche fameliche, e lo punsero dolorosamente. Lui ne calpestò quacuna, ma nell’agitazione rischiò di avvicinarsi troppo a una lampeggiante luce azzurra che si era accesa improvvisamente. Con un calcio lanciò verso la luce tre palline, ed esse si fusero.

Boardman ne aveva abbastanza. Si trovava nel labirinto solo da un’ora e quarantotto minuti, ma gli sembrava di esserci da un secolo. Il percorso ora attraversava una stanza dalle pareti rosa, dove, da sfiatatoi mascosti, uscivano getti di vapore. In fondo al locale c’era una stretta feritoia: se non ci si passava attraverso al momento giusto, si finiva schiacciati. L’apertura dava accesso a un lungo corridoio dal soffitto basso e i muri rosso-sangue che vibravano fino a dare la nausea. All’estremità del corridoio si apriva una piazza, dove si vedevano sei lastre di metallo bianco, ritte in piedi come spade in attesa. Una fontana lanciava in aria un getto d’acqua alto cento metri. La piazza era circondata da tre torri con molte finestre di dimensioni diverse. Alcuni riflettori prismatici giocavano contro i vetri. Nessuno era rotto. Sui gradini che conducevano a una delle torri, giaceva lo scheletro di una creatura lunga almeno dieci metri. Una sfera trasparente, certo un casco spaziale, le copriva ancora il teschio.