Di colpo Muller ricordò che cosa produceva quel suono. Una nave! Un’astronave che inseriva la propulsione a ioni per eseguire un atterraggio planetario. Era il rombo degli espulsori, il pulsare dei tubi di decelerazione mentre passavano sopra la città. Non lo sentiva da nove anni, da quando aveva iniziato il suo esilio volontario su Lemnos. Dunque c’erano dei visitatori. Erano capitati lì per caso? Oppure avevano scoperto le sue tracce? Che cosa volevano? Si sentì infiammare d’ira. Ne aveva abbastanza di loro e del loro mondo: perché venivano a tormentarlo? Non voleva avere più niente a che fare con la Terra e con i Terrestri.
Comunque non l’avrebbero scovato.
Sarebbero morti nel labirinto, aggiungendo le loro ossa allo strato vecchio di milioni di anni che ingombrava i corridoi esterni.
E se fossero riusciti a entrare…
Allora, avrebbero fatto i conti con lui. Con un sogghigno si sistemò meglio sulle spalle il carico di carne e concentrò nuovamente tutta la sua attenzione nel difficile compito di rientrare nel labirinto. Ben presto, raggiunse la zona C. Era al sicuro. Proseguì, passando dalla C alla A. Finalmente arrivò al suo rifugio dove ripose la carne. Si preparò il pasto.
La testa gli doleva come se gliela stessero martellando. Dopo nove anni, non era più l’unico su quel mondo: avevano distrutto la sua solitudine. Una volta ancora si sentì tradito. Oramai non chiedeva altro alla Terra che di essere lasciato in pace, e non volevano concedergli nemmeno questo. Ma se anche fossero riusciti a raggiungerlo all’interno del labirinto, l’avrebbero pagata cara.
2
La nave era uscita dall’iperspazio un po’ in ritardo, quando aveva quasi raggiunto gli strati esterni dell’atmosfera di Lemnos. Charles Boardman, il Caviglione, era tutt’altro che soddisfatto: abituato a esigere da se stesso la perfezione in tutto, si aspettava che i subalterni facessero altrettanto. Specialmente i piloti.
Premette un pulsante e accese lo schermo: nella cabina apparve l’immagine vivida del pianeta sottostante. Solo qualche nube ne oscurava la superficie, e Boardman poteva vedere tutto chiaramente attraverso l’atmosfera. Al centro di un’ampia pianura si scorgeva una serie di circonvoluzioni, visibilissime anche da un’altezza di cento chilometri. Boardman si girò verso il giovanotto che gli stava accanto. «Ci siamo, Ned» disse. «Il labirinto di Lemnos. E Dick Muller se ne sta proprio al centro!»
Ned Rawlins fece una smorfia. «Così grande? Ma saranno centinaia di chilometri!»
«Quello che vedi è il terrapieno esterno. Il labirinto vero e proprio è circondato da un anello concentrico di muri di terra alti cinque metri e con una circonferenza esterna di mille chilometri circa. Ma…»
«Sì, lo so» interruppe Rawlins. «Il punto scuro che si scorge dentro le mura periferiche è la città, vero?»
L’altro annuì. «Quello è il labirinto interno. Ha un diametro di venti, trenta chilometri, e solo Dio sa quanti milioni di anni. Muller lo troveremo là.»
«Se ci arriveremo.»
«Quando ci arriveremo.»
«Sì, sì, certo. Quando ci arriveremo.» Rawlins si corresse, arrossendo. Poi sulla sua faccia passò rapidamente un sorriso. «Non c’è pericolo che non si riesca a trovare l’entrata, vero?»
«Muller ce l’ha fatta» disse l’altro, pacatamente. «È là dentro.»
«Ma è stato l’unico. Tutti quelli che ci si sono provati, all’infuori di lui, sono morti. Perché proprio noi…»
«Non sono stati in molti a tentare. E non erano attrezzati. Noi ce la faremo, Ned. Dobbiamo farcela.»
L’astronave puntò verso il pianeta e Boardman, oppresso dalla decelerazione, pensò che scendeva troppo rapidamente. Detestava i viaggi, e soprattutto il momento dell’atterraggio. Ma quel viaggio non aveva potuto evitarlo. Si appoggiò allo schienale del sedile di gommapiuma e spense lo schermo. Ned se ne stava ancora in piedi, gli occhi lucenti per l’eccitazione. Bella cosa, essere giovani! Quel ragazzo era più robusto e intelligente di quanto non sembrasse. Boardman non ricordava di essere mai stato così, da giovane. Forse non era mai stato giovane: era passato dall’adolescenza alla maturità a causa delle sue «virtù» peculiari: la furbizia, un istintivo senso del calcolo e dell’organizzazione. Adesso aveva ottant’anni, e quasi metà della vita dietro le spalle, tuttavia non poteva dire che la sua personalità fosse cambiata nei tratti essenziali. Aveva appreso tecniche nuove, come l’arte di trattare con gli uomini, ed era diventato molto più saggio, tuttavia non era qualitativamente diverso. Ma Ned Rawlins si sarebbe certamente trasformato: tra sessant’anni, ben poco sarebbe rimasto del ragazzo inesperto che gli stava accanto in quel momento. E, probabilmente, sarebbe stata proprio quella missione a distruggere la freschezza e l’ingenuità del ragazzo.
Chiuse gli occhi mentre la nave iniziava la manovra finale di atterraggio. Sentiva la forza di gravità artigliare la sua carne ormai vecchia. Giù, giù, giù. Quanti atterraggi aveva compiuto in vita sua, e tutti altrettanto spiacevoli? La vita del diplomatico non conosce riposo. Natale su Marte. Pasqua su uno dei mondi del Centauro. Ferragosto su un puzzolente pianeta di Rigel… e ora questo viaggio, il più complicato che avesse mai intrapreso. L’uomo non è fatto per viaggiare come un razzo da una stella all’altra. Si diceva che quella fosse l’era più ricca dell’intera storia umana, ma lui era convinto che fosse assai più fortunato chi conosce a fondo ogni atomo di un’isoletta sperduta in un mare azzurro; certamente più fortunato di chi passa i suoi giorni a zonzo per lo spazio.
La pelle gli pendeva in grasse e pesanti pieghe sotto il mento e il suo corpo, gonfiato dall’obesità, gli dava un aspetto di gaudente. Con poca fatica avrebbe potuto riprendere le snelle e agili fattezze di un uomo moderno: la sua era un’epoca in cui un ultracentenario poteva sembrare un giovanotto, solo se l’avesse voluto. Ma fin dagli inizi della sua carriera, Boardman aveva preferito simulare l’autentica maturità. Era stato una specie di investimento: quello che perdeva in eleganza lo guadagnava in importanza. Il suo mestiere era quello di vendere consigli ai governi, e i governi non amavano comprarli da uomini che parevano ragazzini. Da circa quarant’anni Boardman ne dimostrava cinquantacinque, e contava di continuare così per un altro mezzo secolo. Poi, quando sarebbe entrato nella fase finale della sua carriera, avrebbe permesso al tempo di compiere finalmente il suo lavoro su di lui; avrebbe accettato i capelli bianchi, le guance scavate di un ottantenne e si sarebbe atteggiato a Nestore anziché a Ulisse. Ma per il momento gli tornava più vantaggioso essere quello che sembrava.
Per quanto fosse piccolo, riusciva sempre a dominare sugli altri, durante le riunioni: le spalle poderose, il torace ampio e le braccia lunghe, si sarebbero detti quelli di un gigante. Quando si alzava, rivelava un’altezza inferiore alla media, ma finché stava seduto, incuteva riverenza. Anche questa caratteristica lui la trovava utile, e non aveva mai ritenuto opportuno cambiarla. Un uomo molto alto è più adatto a comandare che a consigliare, a Boardman non aveva mai aspirato al comando: preferiva un potere più sottile. Tuttavia, un uomo piccolo, che seduto a un tavolo sembra alto, può dominare gli imperi. E gli affari degli imperi si trattano stando seduti.
Era l’incarnazione dell’autorità: il mento forte, il naso grosso ed energico, le labbra dure e sensuali a un tempo, le sopracciglia folte e irsute come due strisce di pelo nero su una fronte massiccia che avrebbe fatto l’invidia di un uomo di Neanderthal. Portava i capelli lunghi e spettinati. Tre anelli gli brillavano al dito: uno era un giroscopio di platino e rubini incastonato in prezioso U 238. Gli abiti erano severi e tradizionali, di stoffa pesante e di taglio quasi medievale. In un’altra epoca, avrebbe certamente occupato una posizione predominante a corte. Anche adesso era un uomo importante, ma la sua importanza aveva come prezzo il disagio di viaggi continui. Presto sarebbe atterrato su un altro pianeta straniero, dove l’aria aveva un cattivo odore, la gravità era un po’ troppo forte e la luce del sole presentava una sfumatura non giusta…