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«Sarei di questo parere.»

«Vi diremo che cosa bisogna evitare. Là è successo l’incidente a Petroncelli, proprio vicino all’entrata della zona D, a circa cinque metri da qui. Si fa scattare inavvertitamente un campo magnetico o chissà cos’altro, e si finisce tagliati a metà. I ricognitori però l’hanno passata liscia.»

«Può darsi che il campo agisca su qualsiasi cosa in movimento, tranne i robot» disse Rawlins.

«Però a Muller non è successo niente» ribatté Walker. «Lascerà in pace anche voi se girerete attorno al punto pericoloso. Vi faremo vedere come.»

«E oltre quel punto?»

«Non c’è ancora andato nessuno di noi.»

«Se sei stanco, passa lì la notte» disse Boardman.

«No, preferisco continuare.»

«Sarai solo, Ned. Perché non vuoi riposare?»

«Dite al cervello elettronico di esaminarmi e stabilire il mio grado di stanchezza. Io mi sento pronto per proseguire.»

Boardman controllò. Il calcolatore, che conosceva il ritmo delle pulsazioni di Ned, il suo livello ormonale e molte altre cose più intime, non sollevò obiezioni al suo desiderio di proseguire.

«E va bene» disse Boardman. «Continua pure.»

«Sto per entrare nella zona D. In questo punto è morto Petroncelli. Vedo la linea di scatto, sottilissima, molto ben dissimulata. Ecco, sono passato. Sì… questa è la zona D. Adesso mi fermo e aspetto che il cervello elettronico mi dia l’orientamento. Questa zona sembra un po’ più semplice della E. Non dovrei metterci molto per attraversarla.»

La zona C era difesa da fiamme color rame, ma erano solo un miraggio.

«Dite alle galassie che il loro destino è in buone mani» disse Rawlins a voce bassa. «Tra un quarto d’ora dovrei trovare Muller.»

14

Muller era rimasto spesso solo per lunghi periodi. Aveva un numero sufficiente di erotocubi per distrarsi, e rischi a volontà che lo tenevano occupato nel labirinto. E poi c’erano i ricordi.

Poteva rievocare scene vissute su un centinaio di corpi celesti sparsi dovunque. Per esempio, su Delta Pavone VI, un mondo a vent’anni-luce di distanza dalla Terra e che i suoi abitanti chiamavano Loki, nome niente affatto appropriato, perché faceva pensare a qualcosa di agile, furbo e snello, mentre i colonizzatori del pianeta, rimasti per cinquant’anni isolati, avevano decretato il culto dell’obesità artificiale, ottenuta per mezzo del controllo glicostatico. Muller aveva visitato quel pianeta dieci anni prima del suo viaggio fatale su Beta Hydri IV, e lo ricordava assai caldo, abitabile soltanto in una stretta striscia temperata. Budda del peso di qualche centinaio di chili l’uno, grondanti di sudore, se ne stavano seduti immobili, in meditazione, davanti a capanne dal tetto di paglia. Muller non aveva mai visto tanta carne, prima di allora. I Lokiti agivano sui loro glico-ricettori periferici per ottenere un accumulo di grasso corporeo. Era una trasformazione inutile, non necessaria a risolvere alcun problema di adattamento ambientale; semplicemente, a quella gente piaceva essere enorme, ecco tutto. Muller ricordava braccia che parevano cosce, cosce che parevano colonne, ventri che debordavano in pieghe molteplici con eccezionale abbondanza.

Dando prova di grande ospitalità, quel popolo aveva subito offerto una donna all’osservatore venuto dalla Terra. Per Muller quella era stata una lezione sulla relatività dei costumi. Nel villaggio c’erano due o tre donne che, sebbene notevolmente grosse, erano scarne secondo lo standard locale, e si avvicinavano così alla norma terrestre. Ma i Lokiti non gli avevano proposto una di quelle, considerate pietosi relitti sottosviluppati di soli cento chili, e trovando indelicato riservare all’ospite una compagna simile, gli avevano presentato invece un colosso biondo con seni come meloni e natiche che parevano continenti di carne tremolante.

Comunque, si era trattato di un’esperienza indimenticabile.

E c’erano tanti altri mondi… Era stato un viaggiatore instancabile. Aveva rabbrividito in laghi di metano, si era arrostito in deserti protosahariani, aveva seguito colonizzatori nomadi attraverso pianure purpuree alla ricerca di mandrie disperse di artropodi. Era naufragato, per un guasto al calcolatore, su mondi privi d’aria, e aveva contemplato le scogliere color rame di Damballa, alte novanta chilometri. Aveva dormito presso un ruscello variopinto, sotto un cielo incendiato dalla luce ardente di tre soli, attraversato i ponti di cristallo di Procione XIV. Per questo non provava rimpianti.

Adesso, nascosto nel cuore del labirinto, guardava gli schermi e aspettava che gli esploratori lo scoprissero. In mano stringeva un’arma micidiale, piccola e fredda.

Il pomeriggio passò in fretta. Rawlins cominciò a pensare che avrebbe fatto meglio ad ascoltare Boardman e a trascorrere la notte al campo, prima di andare alla ricerca di Muller. Gli ci sarebbero volute almeno tre ore di sonno profondo per alleviare la mente dalla tensione, ma adesso non era più possibile. I suoi sensori lo avvertivano che Muller era vicino.

Non aveva mai fatto niente di importante, prima di allora. Aveva sempre studiato, svolto mansioni normali nell’ufficio di Boardman, e di quando in quando gli avevano affidato qualche incarico appena un po’ più delicato del solito. Ma lui era sempre stato convinto che la sua carriera non fosse ancora iniziata, e che tutto quello fosse solo tirocinio. Tuttavia, ora non si trattava più di un sogno. Lui se ne stava lì, alto, biondo, giovane, ostinato e pieno di ambizioni, centro di una missione che poteva influenzare il corso della storia futura. In quanto a questo, Boardman non aveva esagerato.

Una vibrazione!

Si guardò attorno. I sensori avevano reagito. Dall’ombra emerse la figura di un uomo: Muller. Rimasero uno di fronte all’altro, alla distanza di una ventina di metri. Rawlins ricordava Muller come un gigante, ed era sorpreso di vedere che, invece, erano su per giù della stessa statura: poco più di due metri. Muller era avvolto in un mantello scuro. A quell’ora, e in quella luce, la sua faccia era un insieme di piani contrastanti e di sporgenze prominenti, come un paesaggio tutto vette e vallate. In mano, Muller teneva l’arma rotonda come una mela che aveva distrutto il ricognitore.

Rawlins sentì la voce di Boardman ronzargli nell’orecchio. Avvicinati, ora. Sorridi. Assumi un’aria timida, perplessa, cordiale e molto preoccupata. E tieni le mani in modo che lui possa sempre vederle.

Il giovane ubbidì, e si chiese quando avrebbe cominciato a sentire gli effetti della presenza di Muller. Gli riusciva difficile staccare lo sguardo dal piccolo globo lucido che l’uomo teneva in mano come una granata. Quando fu a una distanza di dieci metri, cominciò ad avvertire le radiazioni.

«Cosa diavolo…» disse Muller.

Le parole gli uscirono di bocca in un grido rauco. Si interruppe un istante, le guance in fiamme, come se stesse regolando il meccanismo della sua laringe, poi riprese: «Cosa volete da me?» Questa volta era la sua vera voce, profonda, incrinata dalla collera.

«Soltanto parlare. Non voglio recarvi alcun disturbo, signor Muller. Lo giuro.»

«Mi conoscete?!»

«Naturalmente. Tutti conoscono Richard Muller. Eravate l’eroe galattico per eccellenza quando io andavo a scuola. Abbiamo scritto un’infinità di relazioni e di temi su di voi! Noi…»

«Andatevene!»

«Sono il figlio di Stephen Rawlins. Vi conosco bene, signor Muller.» La sfera scura si era alzata, minacciosa. Ned ricordò come il collegamento con il ricognitore si fosse interrotto bruscamente.

«Stephen Rawlins?» La sfera si abbassò.

«Sì. Era mio padre.» Rawlins aveva l’impressione che la gamba sinistra stesse sciogliendosi. Ora sentiva più fortemente le radiazioni provenienti da Muller. Forse c’erano voluti alcuni minuti per sintonizzarsi sulla sua lunghezza d’onda. Si sentiva investire da un torrente d’angoscia, da un’orribile tristezza. «Vi ho incontrato molto tempo fa» disse. «Eravate appena tornato da… vediamo un po’… da Eridani ottantadue, credo. Eravate abbronzatissimo e bruciato dal vento. Io avevo otto anni, e voi mi avete preso in braccio e mi avete lanciato in aria. Ma non eravate più abituato alla gravità terrestre, e così ci avete messo troppa forza, e io sono andato a sbattere la testa contro il soffitto. Ricordo che sono scappato in lacrime e che voi mi avete regalato un sassolino cangiante.»