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Muller aveva lasciato ricadere le braccia lungo i fianchi. La «mela» era scomparsa tra le pieghe del mantello.

«Come vi chiamate?» disse bruscamente. «Fred, Ted, Ed… Ecco, sì. Ed, Edward Rawlins.»

«Hanno cominciato a chiamarmi Ned più tardi.»

Muller voltò la faccia, e tossì. La sua mano scivolò ancora nella tasca. Poi alzò la testa, e il sole morente gli brillò sulla fronte, tingendogliela di arancione scuro. Fece un cenno e ordinò: «Vattene, Ned. Di’ ai tuoi amici che non voglio essere disturbato. Sono molto malato e voglio restare solo.»

«Malato?»

«Malato di una misteriosa carie interna. Un cancro dell’anima. Senti, Ned: tu sei un bravo ragazzo, e io voglio molto bene a tuo padre, per questo non voglio che tu mi stia attorno. Te ne pentiresti. Non è una minaccia, ma una constatazione. Quindi, vattene.»

Non muoverti, Ned ordinò Boardman. Avvicinati. Anche se fa male.

Rawlins fece un passo, riducendo la distanza tra sé e Muller. L’impatto della radiazione sembrò raddoppiare di violenza.

«Per favore, non mandatemi via, signor Muller» disse. «Voglio solo dimostrarvi la mia comprensione. Mio padre non mi avrebbe mai perdonato se fosse venuto a sapere che, avendovi trovato qui, in questo stato, non avevo fatto niente per cercare di aiutarvi.»

«Non avrebbe? Se fosse venuto a sapere? Che cos’è successo a tuo padre?»

«È morto. Dieci anni fa, su Rigel Ventidue. Stava aiutando a sistemare una rete speciale per collegare i mondi di Rigel. È successo un incidente imprevisto e lui ci ha rimesso la vita.»

«Dio mio! Era ancora giovane.»

«Avrebbe compiuto cinquant’anni un mese dopo.»

I lineamenti di Muller si addolcirono. E un poco della solita espressione angosciosa gli scomparve dagli occhi. Le sue labbra si ammorbidirono. Fu come se il dolore di un altro gli avesse fatto dimenticare per un istante il suo.

Vagli più vicino ordinò Boardman.

Un passo, poi, siccome Muller aveva l’aria di non farci caso, un altro ancora. Rawlins provava una sensazione di calore: non fisico, ma psichico, come una vampata ardente di emozioni che sfuggivano all’analisi. Rabbrividì.

«Che cosa fai qui su Lemnos, ragazzo?» chiese Muller.

«Sono… un archeologo.» La bugia gli uscì dalle labbra in maniera goffa. «Questa è la prima spedizione a cui partecipo. Stiamo cercando di compiere un esame completo del labirinto.»

«Nel labirinto, guarda un po’, adesso ci abita qualcuno. Voi siete degli intrusi indesiderati.»

Rawlins balbettò qualcosa d’incomprensibile.

Digli che non sapevate che lui era lì ordinò Boardman.

«Non ci eravamo accorti che ci fosse qualcuno» disse Ned. «Non potevamo sapere…»

«E il robot che avete mandato fin qui? Una volta scoperto che qui c’era qualcuno, avreste dovuto capire che questo qualcuno non voleva compagnia…»

«Non capisco» disse Ned. «Abbiamo pensato che foste la vittima di qualche naufragio. Volevamo offrirvi aiuto.» Come mento facilmente! pensò.

Muller si rabbuiò. «Non sai, dunque, perché sono qui?»

«No.»

«Già. Eri troppo piccolo. Ma gli altri, quando hanno visto la mia faccia, avrebbero dovuto capire. Perché non ti hanno detto niente?»

«Sinceramente, non capisco…»

«Avvicinati!» tuonò Muller.

Rawlins si trascinò avanti. Di colpo si trovò a faccia a faccia con Muller, dominato dalla corporatura massiccia dell’uomo, dalla fronte solcata di rughe e dagli occhi fissi, sbarrati, rabbiosi. La mano enorme lo afferrò a un polso, e lui barcollò, intontito per la forza insospettata dell’urto, travolto da una disperazione così grande che sembrava ingoiare l’Universo intero. Cercò di dominarsi.

«E adesso vattene!» gridò Muller, aspro. «Esci di qui! Fuori!»

Rawlins non si mosse.

L’uomo imprecò, e corse a rifugiarsi in un edificio basso, dai muri che parevano di vetro. La porta si richiuse alle sue spalle. Ned respirò a fondo e cercò di ritrovare il suo equilibrio.

Resta dove sei disse Boardman. Lasciagli il tempo di smaltire tutta la collera. Tutto va a gonfie vele.

15

Muller si accovacciò dietro la porta. Era madido di sudore, e tremava. Incrociò le braccia, e le premette forte contro il torace, sino a farsi dolere le costole. Non era così che avrebbe voluto trattare l’intruso. Aveva deciso di comportarsi in tutt’altro modo: due parole di spiegazione, un energico invito ad andarsene e, se l’uomo non avesse ubbidito, la sfera disintegratrice. Ma le cose erano andate diversamente. Aveva parlato e ascoltato troppo. Il figlio di Stephen Rawlins? Una spedizione di archeologi? Il ragazzo aveva l’aria di non risentire esageratamente dell’effetto delle radiazioni, se non a distanza molto ravvicinata. Forse il male perdeva forza col passare degli anni?

Muller lottò per dominarsi e analizzarsi. Perché era così impaurito? Perché si aggrappava tanto disperatamente alla sua solitudine? Non aveva niente da temere dai Terrestri: se mai, erano loro a soffrire quando venivano a contattò con lui. In fondo, lui era fuggito per amore degli uomini, perché non voleva infliggere a nessuno il tormento della propria presenza. Ma il ragazzo gli dimostrava simpatia e voleva aiutarlo. Perché fuggire?

Si alzò lentamente, aprì la porta. Uscì. La notte era scesa con la rapidità che le era propria durante l’inverno. Il cielo era nero, e le lune ardevano sopra la sua testa. Il ragazzo era ancora lì, in mezzo alla piazza, un po’ sconcertato. Clotho, la luna più grande, gli inondava di luce d’oro i capelli che sembrano risplendere per una fiamma interna. La faccia era pallida. Gli occhi azzurri splendevano sgomenti.

Muller si sentiva come una grossa macchina arrugginita che ricomincia a funzionare dopo molti anni di abbandono. «Ned» disse «senti, Ned, voglio dirti che mi dispiace. Cerca di capire, non sono più abituato a vedere gente. Abituato… a… vedere… gente.»

«Non preoccupatevi, Muller, vi capisco benissimo. Dev’essere stato difficile per voi.»

«Chiamami Dick.» Muller alzò le mani unite a coppa, come se volesse raccogliere un raggio di luna. Sul muro opposto della piazza danzavano le sagome di alcuni animaletti. «Ho finito per amare la mia solitudine» disse Muller. «Si può amare anche il cancro, quando si è nello stato d’animo giusto. Senti, dovresti renderti conto di una cosa: sono venuto qui di mia spontanea volontà. Non è stato un naufragio. Ho scelto l’unico posto dell’Universo dove avevo buone probabilità di essere lasciato in pace, e mi ci sono nascosto. E voi siete arrivati con i vostri maledetti robot, e vi siete spinti fin qui.»

«Se non mi volete, me ne vado» disse Rawlins.

«Forse questa sarebbe la cosa migliore per tutt’e due. No… aspetta. Rimani. È terribile, stare vicino a me?»

«Ecco… non è piacevole, ma non è affatto tremendo come… Non so… Da questa distanza mi sento solo un po’ depresso.»

«E lo sai il perché? Da come parli, direi di sì. Fingi soltanto d’ignorare che cosa è successo su Beta Hydri IV.»

Rawlins arrossì. «Ricordo qualcosa, in modo vago. Hanno agito sulla vostra mente, se non sbaglio.»