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«Comincio a capire.»

«Perciò, quando sarà fuori del labirinto, gli diremo quello che dovrà fare. Senza dubbio si infurierà perché l’abbiamo ingannato, ma può darsi che, malgrado la furia, riesca a capire qual è il suo dovere. Almeno lo spero. Tu non ne sembri convinto. Comunque, non importa: non gli sarà più permesso scegliere, una volta che avrà lasciato il suo rifugio. Lo porteremo sul mondo degli extra-galattici e lo consegneremo a loro perché stabilisca un contatto.»

«Che collabori o no, non ha importanza, dunque» disse Rawlins lentamente. «Verrà scaricato, come un sacco di patate.»

«Un sacco pensante. E i nostri amici lo capiranno presto.»

«Io…»

«No, Ned. Non dire niente, adesso. Lo so che cosa stai pensando. Detesti questo piano. È naturale! Anche a me non piace. Ma adesso vattene, e pensaci con calma. Esamina accuratamente tutti gli aspetti della questione prima di prendere una decisione. Se domani sarai ancora dello stesso parere, faremo a meno di te. Ma promettimi di dormirci sopra stanotte.»

Rawlins impallidì, poi le sue guance si fecero di fiamma. Boardman sorrise benevolmente. Ned strinse le labbra, s’irrigidì nello sforzo di dominarsi, e uscì in fretta.

Un rischio calcolato.

Boardman prese un’altra pillola. Poi allungò la mano per afferrare la fiaschetta mandata da Muller. Versò due dita d’assaggio. Dolce, aromatico, forte. Un liquore eccellente.

22

A Muller, in fondo, gli Hydrani non dispiacevano. Anzi, la caratteristica che più gli era rimasta impressa era la grazia dei loro movimenti.

Ricordava chiaramente quella sua impresa. Era atterrato in una zona umida e buia del pianeta, un po’ a nord dell’equatore, su un continente ameboide occupato da una dozzina di grandi pseudo-città, ciascuna delle quali occupavaun’area di parecchie migliaia di chilometri. Il dispositivo che gli permetteva di sopravvivere, progettato appositamente per quella spedizione, era poco più di un sottile foglio filtrante che gli aderiva al corpo come una seconda pelle, fornendogli aria attraverso migliaia di piastrine dializzatrici, e questo gli consentiva di muoversi facilmente, se non proprio comodamente.

Aveva dovuto camminare per un’ora nella foresta di alberi che parevano funghi giganteschi, prima d’imbattersi in qualche indigeno. Gli alberi raggiungevano altezze di centinaia di metri, forse per via della gravità, che lì era poco meno della metà di quella terrestre. I tronchi non parevano molto robusti; probabilmente il sottile strato esterno di legno ricopriva una polpa satura di umidità. Le «cappelle» si incontravano al di sopra della sua testa, formando un baldacchino ininterrotto, ed escludevano quasi completamente la luce dal suolo della foresta. Poiché lo strato di nubi da cui era avvolto il pianeta lasciava filtrare soltanto una luce color perla e anche questa veniva intercettata dalle piante, là sotto l’atmosfera era davvero cupa.

Quando Muller incontrò gli alieni, fu sorpreso di constatare che erano alti circa tre metri. Per un po’, rimase tranquillo, circondato dagli sconosciuti e torcendo il collo verso l’alto per incontrare il loro sguardo. Poi, con voce pacata, disse: «Mi chiamo Richard Muller. Vengo, ambasciatore di pace, dai popoli della Sfera Culturale Terrestre.»

Dopo di che s’inginocchiò e tracciò il Teorema di Pitagora sul terreno umido e molle.

Quando ebbe finito alzò gli occhi e sorrise. «È un concetto fondamentale della geometria. Uno schema universale di pensiero» disse.

Le narici verticali degli Hydrani tremarono leggermente, le teste si inclinarono. Muller pensò che stessero scambiandosi occhiate perplesse: dato che erano dotati di occhi disposti a corona, in realtà non avevano bisogno di cambiare posizione per osservare alcunché. Allora tracciò una linea, sempre sul terreno. Poco più in là, ne tracciò altre due. Ancora più distante, tre. Poi aggiunse i segni, nel modo seguente: I + II = III.

«Capito?» disse. «Noi la chiamiamo addizione.»

Le membra snodate ondeggiarono, e due degli spettatori si toccarono. Muller ricordò come avessero distrutto l’obiettivo del ricognitore, non appena scoperto, senza la minima esitazione: era pronto per affrontare una simile eventualità. Invece quelli ora ascoltavano, e la cosa gli parve di buon auspicio. Si alzò di nuovo e indicò i segni che spiccavano sul terreno.

«Tocca a voi, adesso» disse forte. Sorrise e soggiunse: «Mostratemi di avere capito, parlatemi nel linguaggio universale della matematica.»

Dopo una lunga pausa, uno degli Hydrani avanzò, ondeggiando, allungò una zampa e la tenne sospesa sopra il terreno. Il piede a forma di sfera si mosse senza scatti, e le linee scomparvero, l’una dopo l’altra, lasciando il suolo perfettamente liscio.

«Bene» disse Muller. «Adesso disegnate voi qualcosa.»

Ma l’Hydrano tornò al suo posto, in mezzo agli altri.

«Be’» disse ancora Muller «c’è un’altra lingua universale. Spero che questa non offenda le vostre orecchie.» Estrasse di tasca un flauto e lo portò alle labbra. Era difficile usarlo attraverso il foglio filtrante, comunque riuscì a suonare la scala diatonica. Le membra degli esseri sconosciuti ondeggiarono lievemente: evidentemente potevano udire o comunque percepire le vibrazioni.

«Mi sentite?» chiese.

Sembrò che quelli confabulassero tra loro. Poi se ne andarono.

Lui cercò di seguirli, ma non riuscì a tenergli dietro e presto li perse di vista nella foresta scura e nebbiosa. Tuttavia continuò a cercarli. E infine li trovò. Ma quando si avvicinava, quelli ricominciavano a muoversi; lo condussero, così, fino alla loro città.

Muller si nutriva di alimenti sintetici, perché l’analisi chimica aveva dimostrato che era pericoloso mangiare quello che il pianeta offriva.

Disegnò molte volte il Teorema di Pitagora, abbozzò un discreto numero di procedimenti matematici, suonò Schönberg e Bach, costruì triangoli equilateri, affrontò la geometria solida. Cantò e parlò in francese, russo e inglese per dimostrare la diversità delle varie lingue umane. Mostrò loro la tavola dei numeri periodici. Dopo sei mesi di permanenza sul pianeta, era ancora allo stesso punto di quando era atterrato. Gli abitanti tolleravano la sua presenza, ma non gli dicevano niente.

Alla fine gli Hydrani si stancarono dei suoi tentativi, e passarono all’azione.

Andarono da lui, ma lui dormiva.

Solo molto più tardi si accorse di quello che gli avevano fatto mentre stava dormendo.

Aveva avuto tempo nove anni per rinfrescarsi la memoria. Aveva riempito di ricordi alcuni mnemocubi; questo, però, all’inizio del suo esilio, quando temeva che il ricordo del suo passato gli sfuggisse. Ma poi aveva scoperto che, col trascorrere del tempo, i ricordi si facevano più vividi. Forse era l’allenamento. Poteva rievocare immagini, suoni, gusti, odori, ricostruire interi dialoghi. Riuscì perfino a citare i testi completi dei trattati che lui stesso aveva negoziato.

Era costretto ad ammettere che, se gliene avessero offerto la possibilità, ora sarebbe tornato sulla Terra. Tutto quello che aveva detto non lo pensava veramente. Non era riuscito a ingannare né Rawlins, né se stesso: provava davvero un profondo disprezzo per il genere umano, ma non desiderava prolungare l’isolamento. Aspettò avidamente il ritorno di Ned, e per ingannare l’attesa mandò giù parecchie coppe di liquore. Poi andò a caccia e uccise una gran quantità di animali, facendo così una provvista di carne che non sarebbe riuscito a smaltire neanche in un anno. E intanto ragionava concitatamente tra sé, sognando la Terra.

Rawlins arrivò correndo. Muller, in piedi dentro la zona C, lo vide attraversare l’entrata, ansante e congestionato.

«Non devi correre, qui dentro» disse Muller. «Neanche nelle zone più sicure. Non si può assolutamente…»