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In tutto, riuscì ad avanzare ventitré metri. Mentre oltrepassava la piramide, indovinò lo scheletro dell’esploratore Morteson, scomparso in quel punto settantadue anni prima, e informò che l’uomo era stato ucciso da un grosso martello a pressione che lui stesso aveva messo in funzione passando inavvertitamente troppo vicino alla piramide. Il robot evitò altri due trabocchetti, poi fu ingannato da uno schermo deformante che disorientò i suoi sensori proprio mentre un pistone polverizzatore stava abbattendosi sopra di lui.

«Il prossimo ricognitore dovrà disinnestare tutti gli organi di avvistamento finché non avrà oltrepassato quel punto» borbottò Hosteen. «Se sarà completamente cieco, ce la farà.»

«Forse un uomo se la caverebbe meglio di una macchina» disse Boardman. «Può darsi che quello schermo non riesca a disorientarlo come ha fatto con un gruppo di apparecchi sensori.»

«Non siamo ancora pronti per mandare un uomo» ribatté Hosteen.

Boardman dovette convenire che il comandante aveva ragione, ma lo fece con una certa malagrazia. Almeno così sembrò a Rawlins, che ascoltava il dialogo. Lo schermo si illuminò di nuovo. Hosteen aveva ordinato che un secondo gruppo di macchine venisse lanciato nel labirinto e seguisse il percorso che, ora lo si sapeva con certezza, rappresentava l’unica via sicura di accesso. Parecchi ricognitori erano già arrivati al punto in cui era stata localizzata la pericolosa piramide, e Hosteen ne mandò avanti uno, tenendo gli altri di riserva. Quando il ricognitore entrò nel campo d’azione dello schermo deformante, staccò i sensori. Esitò un attimo, vacillando, ma si riprese subito. Ora non aveva più contatti con l’ambiente circostante e non poteva essere lusingato dallo schermo che, come il canto di una sirena, aveva ingannato il suo predecessore attirandolo sotto il pistone polverizzatore. Gli altri robot, che osservavano la scena, erano fuori portata dello schermo fatale e inviavano al calcolatore un’immagine chiara di quanto stava accadendo. Una breve pausa e il ricognitore cieco cominciò a muoversi, guidato dal cervello elettronico, che lo fece proseguire inviandogli una serie di stimoli, finché il robot non ebbe superato felicemente il pericolo. Poi i sensori vennero nuovamente attivati. Per maggior sicurezza, Hosteen fece avanzare un secondo ricognitore, ugualmente accecato. Anche questo superò la prova. Allora provò con un terzo, questa volta con i sensori inseriti. Il cervello elettronico cercò di dirigerlo lungo il percorso sicuro, ma l’apparecchio, disorientato dalle deformazioni dello schermo, scartò furiosamente e finì in pezzi.

«Bene» disse Hosteen. «Se di lì passa un ricognitore, possiamo farci passare anche un uomo. Basta che chiuda gli occhi, e che il cervello elettronico calcoli i suoi spostamenti passo per passo. Ce la faremo.»

Il ricognitore-guida riprese il suo cammino. Procedette per diciassette metri oltre il punto in cui era piazzato lo schermo, poi fu inchiodato da una griglia argentea dalla quale spuntavano un paio di elettrodi. Fu un attimo, il ricognitore scomparve in un mare di scintille. Rawlins osservava, muto, mentre il ricognitore che seguiva evitava l’ostacolo, per cadere subito vittima di un altro. Gli apparecchi di scorta aspettavano pazientemente il loro turno.

Presto anche gli uomini ci andranno pensò Ned. Noi ci andremo.

Chiuse il terminale dei dati e raggiunse Boardman.

«Cosa ve ne pare, finora?» gli chiese.

«Difficile, ma non impossibile» disse Boardman. «Non può continuare così fino alla fine.»

«E se continua?»

«Resteremmo senza ricognitori. Faremo una carta completa del labirinto, individueremo tutti i punti pericolosi, e poi entreremo in azione.»

«Avete intenzione di andarci voi?»

«Ma certo. E tu mi accompagnerai.»

«Con quante probabilità di cavarcela?»

«Buone probabilità. Altrimenti non mi ci metterei. È senz’altro un’impresa pericolosa, Ned, ma non sopravvalutare i rischi. Abbiamo appena cominciato a esplorare il labirinto. Tra poco lo conosceremo meglio.»

Rawlins ci pensò un momento. «Muller non aveva ricognitori» disse infine. «Come c’è riuscito?»

«Non lo so» mormorò Boardman. «Forse è stato fortunato, eccezionalmente fortunato… ma non ci credo.»

6

Dentro il labirinto, Muller osservava sugli schermi i movimenti dei nuovi arrivati. Mandavano avanti delle specie di robot: li vedeva bene. I primi finivano tutti male, ma ogni nuova ondata penetrava un po’ più a fondo. A furia di sbagli e insuccessi, avevano attraversato la zona H, ed erano entrati nella G. Nel suo rifugio, però, Muller non perdeva la calma e si dedicava alle sue occupazioni quotidiane.

Al mattino passava buona parte del tempo a meditare sul suo passato. C’erano stati altri mondi, nella sua vita, altre primavere, e stagioni più calde di quella. Occhi innamorati l’avevano guardato, mani carezzevoli avevano sfiorato la sua. E poi sorrisi e risate, pavimenti lucidi e figure vestite con eleganza che si muovevano sotto grandi porte ad arco. Si era sposato due volte, e tutt’e due le unioni erano finite di comune accordo dopo un numero rispettabile di anni. Aveva viaggiato molto, aveva trattato con re e ministri. Nelle narici aveva ancora il profumo di un centinaio di pianeti sparsi nello spazio. In genere l’uomo brucia come una piccola fiammella che poi si spegne, ma lui, durante la sua primavera e la sua estate, aveva vissuto come una fiamma ardente, e sentiva di non essersi meritato un autunno squallido e senza gioia come il suo presente.

La città, per conto proprio, si prendeva cura di lui. Aveva un rifugio dove vivere, cento rifugi. Passava dall’uno all’altro, di tanto in tanto, per il gusto di cambiare. Tutte le case erano come scatole vuote, ma lui si era fatto un letto di cuoio imbottito di pelo, e aveva costruito una sedia con tendini e pelle. Non gli occorreva altro. La città gli forniva l’acqua. Gli animali selvatici circolavano in grande quantità, e non si sarebbe mai trovato a corto di cibo fino a che avesse avuto la forza di andare a caccia. Aveva portato con sé dalla Terra alcune cose fondamentali. Possedeva tre cubi-di-proiezione di libri e uno di musica, che formavano uno scaffale alto sì e no un metro, e potevano nutrire il suo spirito per tutti gli anni che ancora gli restavano da vivere. Aveva anche alcuni erotocubi. Poi c’erano un piccolo registratore, al quale dettava le sue memorie, e un album da disegno. Non gli mancavano neppure le armi e un rivelatore di massa. E, infine, aveva un diagnosticatore con scorte mediche rigenerizzanti. Era più che sufficiente.

Mangiava regolarmente, dormiva bene, ed era arrivato a sentirsi quasi soddisfatto del suo destino. L’amarezza che appesantiva il cuore si scioglie quando si è riusciti a costruirsi attorno un bozzolo che non lascia filtrare il veleno.

Adesso non incolpava nessuno per quello che gli era successo.

Le tappe del viaggio che l’avevano condotto lì gli erano fin troppo note. A diciotto anni si era vantato delle sue ambizioni ardite. A venticinque aveva cominciato a realizzarle. Prima di compiere quarant’anni aveva già visitato un centinaio di mondi ed era famoso in una cinquantina di sistemi. A cinquantatré anni si era lasciato convincere da Charles Boardman a intraprendere la missione su Beta Hydri IV.

Quell’anno si trovava in vacanza nel sistema Tau Ceti, a dodici anni-luce dalla Terra.

Lo accompagnava una ragazza conosciuta l’anno prima, in un sistema lontano venti anni-luce.

Si chiamava Marta. Era alta, snella, con grandi occhi scuri sottolineati da un trucco rosso cupo secondo la moda, e lucenti capelli blu che le accarezzavano le spalle morbide. Sembrava una ragazzina di vent’anni, ma, naturalmente, poteva averne anche novanta ed essere stata «rimessa a nuovo» per la terza volta. Per quanto riguarda l’età, non si è mai sicuri di nessuno, tanto meno di una donna! Tuttavia Muller aveva la sensazione che fosse giovane davvero. Non per la flessibilità del suo corpo o per l’agilità delle sue movenze — quelle erano cose che si potevano ottenere artificialmente — ma piuttosto per quella sfumatura di entusiasmo giovanile, di freschezza, che nessuna chirurgia estetica poteva dare. Sia che si dedicasse a uno sport, sia che facesse all’amore, Marta sembrava completamente immersa nel suo piacere come se si trattasse di un’esperienza assolutamente nuova per lei.