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Alloggiavano in uno splendido albergo, una guglia luminosa alta mille metri, che svettava nel cielo in una valle allietata da un limpido lago ovale.

Le loro stanze erano al duecentesimo piano, e per pranzare si trasferivano in una sala appollaiata come un nido d’aquila alla sommità dell’edificio, e alla quale si arrivava con un disco gravitronico. Durante il giorno, avevano a disposizione tutti i piaceri di Marduk. Una settimana, una meravigliosa, indimenticabile settimana. Il tempo era stato splendido. L’ottavo giorno, Charles Boardman arrivò su Marduk, e invitò Muller a fargli visita.

«Sono in vacanza» disse Muller.

«Regalatemi mezza giornata soltanto. Si tratta di una cosa molto importante, Dick.»

«Sono venuto qui proprio per sfuggire alle cose importanti!»

«Questo è impossibile, Dick, lo sapete. Voi siete quello che siete, e noi abbiamo bisogno di voi. Venite!»

«Al diavolo!» disse Muller.

Boardman gli offrì da bere nel suo appartamento: un vino color ambra, proveniente dalla miniera di Ganimede, servito in coppe di cristallo azzurro cupo. Poi salirono in una sala da pranzo volante e lasciarono l’albergo per fare un giro sulle foreste e sui laghi, mentre pranzavano. I cibi uscivano da soli dai contenitori e volavano verso i commensali che se ne stavano allungati nelle sedie pneumatiche, davanti a una finestra circolare. Insalata fresca, pesce del luogo alla griglia, verdura d’importazione, formaggio da cospargere su timballi raffinati, fiaschi di birra di riso fresca e, infine, un liquore denso, forte, color verde. Un pranzo coi fiocchi! Sigillati nella capsula volante, i commensali accettavano vino e cibi, godendosi il panorama e respirando a pieni polmoni l’aria che veniva pompata dall’esterno, mentre grandi uccelli dai colori sgargianti svolazzavano attorno e si perdevano poi tra i morbidi aghi penduli di conifere lussureggianti.

Dopo pranzo, la sala viaggiante si arrestò sulla riva di un lago limpido e profondo: una gemma azzurra. La parete si aprì, e Boardman disse: «Forse la signorina desidera fare una nuotata mentre noi trattiamo i nostri noiosissimi affari.»

«Ottima idea» disse Marta senza entusiasmo.

Si alzò, toccò il fermaglio sulla spalla, e il peplo che la ricopriva le si afflosciò ai piedi. Boardman si affrettò a raccoglierlo e lo sistemò sull’apposito scaffale. Lei gli sorrise meccanicamente, si girò e si diresse verso la sponda del lago.

«Niente male, Dick!» disse Boardman. «Chi è?»

«Una ragazza. Giovane, credo.»

«Più giovane di quelle che scegliete voi di solito, comunque. È un po’ viziata… La conoscete da molto?»

«Dall’anno scorso. V’interessa?»

Boardman gli lanciò un sorriso enigmatico e accennò al mobiletto dove stavano i liquori. Muller scosse la testa. I due uomini si squadrarono a vicenda. Sembravano della stessa età, sui cinquantacinque anni, e Boardman era alquanto grasso, brizzolato e robusto. Seduti, sembravano della stessa statura. Ma le apparenze ingannavano: Charles era di una generazione più vecchio e Dick era più alto di quindici centimetri. Si conoscevano da trent’anni. In un certo senso svolgevano lo stesso lavoro: entrambi facevano parte del personale segreto che serviva a tenere insieme la struttura della società umana nella galassia. Nessuno dei due aveva una carica ufficiale. Avevano in comune la prontezza nel prodigarsi, e il desiderio di mettere il loro talento al servizio del genere umano. Muller rispettava Boardman per il modo in cui aveva impiegato quel talento nel corso della sua lunga carriera, tuttavia non poteva dire di avere simpatia per lui. Sapeva che Charles era furbo, senza scrupoli e votato al benessere della specie umana, e sapeva che il connubio tra devozione e mancanza di scrupoli è sempre alquanto pericoloso.

Boardman estrasse un cubo di proiezione e lo posò sulla tavola, davanti a Muller. Rimase là, come il dado di un gioco complicato, con le sue facce di sei/sette centimetri per lato, color giallo pallido contro il lucido marmo nero della tavola. «Inseritelo» disse. «Il proiettore è accanto a voi.»

Muller inserì il cubo nell’apposita fessura dell’apparecchio. Subito, al centro della tavola spuntò un altro grosso cubo del diametro di un metro, e le immagini fiorirono sulle diverse facce. Muller vide un pianeta avviluppato da nubi, di colore grigio chiaro. Poteva essere Venere. La visione si oscurò e il grigio fu attraversato da strisce rosso cupo. Non è Venere, si disse. L’obiettivo trapassò lo strato di nubi e rivelò un mondo sconosciuto, molto diverso dalla Terra. Il suolo sembrava umido e spugnoso, e gli alberi, viscidi, avevano l’aria di giganteschi funghi, di cui era difficile valutare esattamente le dimensioni. Ma certo sembravano enormi. I tronchi pallidi, ruvidi di fibre sfilacciate, si incurvavano come archi. A un quinto della loro altezza, avevano una specie di anello sporgente. Sopra non c’erano rami né foglie, ma cappelle piatte con la faccia inferiore screziata e increspata.

Mentre Muller guardava, comparvero tre creature. Erano esseri allungati, che ricordavano un po’ i ragni, con gruppi di otto o dieci zampe snodate che partivano dalle spalle strette. La testa era appuntita e coronata da occhi, le narici parevano feritoie verticali aperte nella pelle. La bocca si apriva su un lato. Camminavano eretti su gambe eleganti che terminavano con piedi sferici. Benché fossero nudi, tranne per alcune strisce di stoffa, che avevano probabilmente una funzione puramente ornamentale, Muller non riusciva a scorgere segni di un apparato riproduttivo. La pelle era grigia come tutto l’ambiente circostante, e sembrava ruvida, ricoperta da uno strato di minuscole squame sfaccettate.

Con grazia straordinaria, i tre si avvicinarono ad altrettanti funghi giganteschi e ci si arrampicarono sopra, accomodandosi sulla cappella. Da ciascun gruppo di zampe uscì un braccio, che sembrava appositamente adatto; questo arto, a differenza degli altri, dotati di cinque dita-tentacolo disposte a cerchio, terminava in un organo appuntito come un ago, che affondò profondamente nel tronco soffice. Trascorse così qualche minuto, poi le creature scesero e ripresero la passeggiata interrotta, senza che niente fosse cambiato, almeno in apparenza.

A un tratto uno si fermò, curvandosi come per osservare attentamente il terreno. Poi raccolse l’«occhio» che aveva spiato i loro movimenti. Le immagini si fecero caotiche, e Muller pensò che probabilmente l’obiettivo passava di mano in mano. All’improvviso, più niente. L’apparecchio era stato distrutto. Qui finiva la proiezione.

Dopo un lungo silenzio pieno di disagio, Muller disse: «Sono davvero convincenti.»

«Lo credo bene. Sono veri.»

«Sono stati ripresi durante una ricognizione extra-galattica?»

«No» rispose Boardman. «Nella nostra galassia.»

«Si tratta di Beta Hydri IV, allora?»

«Infatti.»

Muller represse un brivido, e inserì il cubo per la seconda volta. Di nuovo assisté alla discesa attraverso lo strato di nubi, vide gli alberi a forma di fungo, il terzetto di creature che apparivano, succhiavano il nutrimento dalle piante, scorgevano l’obiettivo e lo distruggevano. Muller guardava, affascinato: non aveva mai visto esseri sapienti di un’altra specie prima di allora. Nessuno ne aveva mai incontrati, che lui sapesse.