«Certo, ma questo si è fatto cancellando le informazioni conservate nelle Banche Memoria e sostituendole con altre nuove. Del resto, ho voluto solo indicarti come la città si presenti fisicamente. Allo stesso modo in Diaspar altre macchine preservano il nostro sistema sociale. Ecco il punto che tengo a dimostrare. Queste macchine controllano ogni cambiamento e lo correggono prima che diventi troppo grande. In che modo? Forse scegliendo quelli che escono dalla Sala della Creazione, forse modificando gli schemi della nostra personalità. Non posso saperlo. Pensiamo di avere una libera volontà, ma possiamo esserne certi?
«In ogni caso, il problema è stato risolto. Diaspar è sopravvissuta ed è passata indenne attraverso il Tempo, come una grande nave il cui carico è composto da ciò che rimane dell’umanità. È un risultato sorprendente dell’ingegneria sociale. Se poi valesse la pena di raggiungerlo è un altro paio di maniche.
«La stabilità, però, non è tutto. Conduce troppo facilmente al ristagno e quindi alla decadenza. I progettisti della città si sforzarono di evitare l’inconveniente, ma questi edifici deserti fanno sospettare che non ci siano pienamente riusciti. Io, Khedron, sono una di queste precauzioni. Una piccolissima, forse, anche se a me piace credere il contrario.»
«E quale sarebbe il tuo ruolo?» chiese Alvin, che navigava ancora nel buio e cominciava a esasperarsi.
«Diciamo che io, Khedron, devo creare una quantità già stabilita di disordine nella città. Spiegare le mie operazioni sarebbe come distruggere l’effetto. Giudica dunque dai miei atti, anche se sono pochi, piuttosto che dalle mie parole, anche se sono molte.»
Alvin non si era mai imbattuto in un tipo come Khedron. Il Buffone aveva una spiccata personalità, un carattere che superava di parecchio il generale livello di uniformità tipico a Diaspar. Per quanto sembrasse difficile scoprire con esattezza quali erano i suoi compiti, come li portasse a termine, non erano queste le cose importanti. Quel che più importava, Alvin lo sentiva, era l’aver trovato una persona con cui poter parlare… quando gliene lasciava il tempo… e che gli avrebbe potuto dare una risposta ai tanti quesiti che lo tormentavano da sempre.
Ripercorsero insieme i corridoi della Torre di Loranne fino alla strada mobile. Solo quando raggiunsero il centro Alvin ricordò che Khedron non gli aveva nemmeno chiesto perché fosse andato nella Torre. Sospettò che Khedron sapesse già tutto e che fosse incuriosito ma non sorpreso. Qualcosa gli diceva che Khedron non si meravigliava mai di niente.
Si scambiarono i rispettivi numeri di matricola, per potersi mettere in contatto qualora l’avessero desiderato. Alvin sperava di rivedere presto il Buffone, anche se sospettava che quella compagnia, a lungo andare, avrebbe rischiato di diventare un peso. Prima del prossimo appuntamento, però, voleva scoprire tutto ciò che i suoi amici, Jeserac in particolare, potevano dirgli sul conto di Khedron.
«Al prossimo incontro» disse Khedron, e svanì. Alvin provò un senso di irritazione. Quando si incontra qualcuno con la proiezione della propria immagine, e non per presenza fisica, è buona regola farlo presente fin dall’inizio della conversazione. A volte, ignorarlo può mettere l’altro in uno svantaggio considerevole. Forse Khedron se n’era rimasto tranquillamente a casa sua per tutto il tempo… ovunque fosse la sua casa. Il numero che il Buffone aveva lasciato ad Alvin dava la possibilità di raggiungerlo con un messaggio in qualsiasi momento, ma non rivelava dove abitasse. Questo però era normale. Si poteva dare il numero di codice con estrema facilità, ma il vero indirizzo lo si confidava soltanto agli amici più intimi.
Mentre tornava in città, Alvin considerò tutto quanto Khedron gli aveva detto su Diaspar e sull’organizzazione sociale della città. Era strano che non avesse mai incontrato nessun altro scontento di quel modello di vita.
Diaspar e i suoi abitanti erano stati designati quale parte di un piano prestabilito. Città e cittadino formavano una simbiosi perfetta e, durante la loro vita lunghissima, gli abitanti della città non avrebbero avuto modo di stancarsi. Per quanto il loro mondo fosse ristretto, rispetto a quello delle epoche precedenti, la complessità di questo mondo aveva un fascino irresistibile, e offriva una quantità di meraviglie e di tesori che andava oltre l’immaginazione. A Diaspar l’Uomo aveva radunato tutti i frutti del suo genio, tutto ciò che era stato possibile salvare dalle rovine del passato. Tutte le città che erano esistite un tempo, così si diceva, avevano dato qualcosa a Diaspar. Prima che venissero gli Invasori, il nome della loro città era conosciuto in tutti i mondi che poi l’uomo aveva perso. Nella costruzione di Diaspar erano state impegnate tutte le tecniche e tutta l’arte dell’Impero: quando i giorni della grandezza stavano per giungere al termine, gli uomini di genio avevano rimodellato la città fornendola di tutte le macchine che l’avrebbero resa immortale. Anche se dimenticata, Diaspar sarebbe vissuta, per portare i discendenti dell’Uomo in salvo lungo il fiume del Tempo.
Non era rimasto loro altro che sopravvivere, e se ne accontentavano. Milioni di cose occupavano le loro vite tra il momento in cui uscivano, quasi completamente adulti, dalla Sala della Creazione, a quando, appena invecchiati nel fisico, tornavano alle Banche Memoria della città. In un mondo dove uomini e donne possedevano un’intelligenza che un tempo era retaggio dei geni, non esisteva il pericolo della noia. La gioia di conversare e discutere, le complicate formalità della vita sociale, bastavano da sole a tenerli occupati per gran parte della vita. Inoltre c’erano i grandi dibattiti pubblici, dove tutta la popolazione interveniva per ascoltare le menti più acute in uno scontro di idee, o per cercare di raggiungere le più alte vette della filosofia.
Nessuno, uomo o donna, mancava di qualche interesse intellettuale. Eriston, per esempio, passava gran parte del suo tempo in lunghi soliloqui con il Computer Centrale. L’apparecchio, che virtualmente governava la città, era in grado di condurre conversazioni simultanee con tutti coloro che volevano cimentarsi in uno scontro verbale con lui. Da trecento anni Eriston cercava di costruire paradossi logici che la macchina non fosse in grado di risolvere. Ma non sperava di riuscirci, nonostante tutto il tempo di vita che aveva a disposizione.
Gli interessi di Etania erano di natura più estetica. Disegnava e costruiva, con l’aiuto del generatore di materia, schemi tridimensionali intrecciati, di tanta bellezza e complessità da essere addirittura esperimenti estremamente avanzati di topologia. Il suo lavoro poteva essere visto in tutta Diaspar, e alcuni suoi schemi erano stati incorporati nel pavimento della gran sala della coreografia, dove venivano usati come base per creare nuovi balletti e nuovi passi di danza.
Simili occupazioni possono sembrare aride a chi non possieda l’intelligenza per apprezzare tali raffinatezze. Comunque, in tutta Diaspar, non c’era nessuno che non fosse in grado di capire cosa stessero facendo Eriston ed Etania, e che non nutrisse interessi analoghi.
L’atletica e gli sport in genere, inclusi quelli resi possibili dal controllo della gravità, risultavano piacevoli soltanto nei primi secoli della giovinezza. Per le avventure e gli esercizi di immaginazione, le saghe provvedevano tutto quanto si poteva desiderare. Queste saghe erano l’inevitabile prodotto dello sforzo per ottenere il realismo, sforzo cominciato quando l’uomo aveva scoperto come riprodurre le immagini in movimento e registrare i suoni, e finito con l’uso delle tecniche perfezionatissime per creare scene che, di vita reale o immaginaria, creavano sempre l’illusione della realtà, perché tutte le impressioni venivano convogliate direttamente nel cervello, e qualsiasi sensazione suscettibile di generare conflitto veniva dissolta. Lo spettatore, per tutta la durata dell’avventura, veniva a trovarsi completamente fuori della realtà: era come se vivesse in un sogno, ma con la convinzione di essere sveglio.