«Esatto. L’ironia è che avrei potuto ottenere tutte le informazioni dal Computer Centrale stesso, senza dovermi servire del povero Khedron. Mi avrebbe detto molto più di quanto avesse mai detto a lui. Comunque devo ammettere che Khedron mi ha fatto risparmiare parecchio tempo, e mi ha insegnato cose che da solo non sarei mai riuscito a scoprire.»
«A me sembra che la tua teoria spieghi tutti i fattori conosciuti» disse Hilvar. «Resta però sempre il problema principale, lo scopo fondamentale di Diaspar, cioè. Perché il tuo popolo cercava di far finta che il resto del mondo non esistesse?Questaè la domanda alla quale vorrei rispondere.»
«È la domanda alla qualevogliorispondere» ribatté subito Alvin. «Ma non so quando, né come.»
Chiacchierarono e fantasticarono a lungo, mentre l’astronave proseguiva la sua rotta e sullo schermo i Sette Soli si spostavano sempre più verso i margini dello schermo finché, alla fine, non rimase che il Sole Centrale.
Per quanto non fossero nello stesso spazio, il sole riusciva a mandare la sua luce perlacea che lo distingueva dalle altre stelle. Minuto per minuto la luminosità della stella aumentava, e a un tratto non fu più un punto ma un piccolo disco. E ora il disco cominciava a espandersi davanti a loro…
Ci fu un breve segnale di avvertimento. Fu una nota profonda, simile al suono di una campana. Alvin si strinse ai braccioli della poltroncina, per quanto sapesse che era una precauzione del tutto inutile.
Tutti i reattori si accesero di scatto, e con una rapidità quasi accecante, riapparvero le stelle. Lo scafo era immerso nello spazio. Era ritornato nell’Universo delle stelle e dei pianeti. Nel mondo naturale in cui niente poteva muoversi a una velocità superiore a quella della luce.
Erano già nelle vicinanze del Sistema dei Sette Soli. Il cerchio dei globi colorati dominava la vastità del cielo. Tutte le stelle che Alvin conosceva, tutte le costellazioni familiari, erano scomparse. La Via Lattea non era più la debole striscia di nebbia relegata in un angolo del cielo. Ora si trovava al centro della creazione, e divideva in due l’Universo.
Lo scafo stava ancora avanzando rapidamente verso il Sole Centrale. Gli altri sei soli sembravano boe colorate sparse nel cielo. Attorno al sole più vicino si vedevano diversi piccoli pianeti in rotazione. Ma dovevano essere mondi immensi, per essere visibili da quella distanza.
Ora la luce perlacea del Sole Centrale era facilmente spiegabile. La grande stella era avvolta da uno strato gassoso che ne attenuava le radiazioni fondendole in quel caratteristico colore. La nebulosa che lo circondava si stendeva seguendo una bizzarra angolatura che confondeva la vista.
Comunque chiaramente distinguibile, e più la si guardava, più sembrava immensa.
«Be’, Alvin» disse Hilvar. «Abbiamo parecchi pianeti a disposizione. O
speri di poterli esplorare tutti?»
«Speriamo che non sia necessario» ammise Alvin. «Se riusciamo a metterci in contatto con qualcuno, forse ci sarà possibile ottenere le informazioni che stiamo cercando. La cosa più logica mi sembra sia puntare sul pianeta più grande del Sole Centrale.»
«A meno che non sia troppo grande. Ho sentito dire che su certi pianeti troppo grandi la vita umana non può esistere. Gli uomini verrebbero schiacciati dal loro stesso peso.»
«Non credo che troveremo un pianeta del genere. Sono quasi certo che questo Sistema è artificiale. A ogni modo potremo vedere dallo spazio se esistono grandi città o meno.»
Hilvar indicò il robot.
«Il nostro problema è già risolto. Non devi dimenticare che la nostra guida è già stata in questa parte dell’universo. Ci ha portati a casa sua… Mi domando se ne è felice.»
Anche Alvin aveva avuto quel pensiero. Ma era logico immaginare che un robot, per il fatto di tornare dopo tanti eoni verso la casa del Maestro, potesse provare emozioni simili a quelle umane?
In tutte le loro relazioni da quando il Computer Centrale aveva tolto i blocchi che lo rendevano muto, il robot non aveva mai mostrato segni di sentimenti o emozioni. Aveva risposto alle sue domande e aveva obbedito ai suoi ordini. Ma la sua personalità era rimasta impenetrabile. Che avesse una personalità, Alvin ne era certo, altrimenti lui non avrebbe provato quell’oscuro senso di colpa per averlo ingannato… e per aver ingannato quel suo compagno che ora dormiva nelle profondità del lago.
Il robot credeva ancora in tutto ciò che il Maestro gli aveva insegnato.
Anche se lo aveva visto truccare i miracoli e gli aveva sentito raccontare menzogne ai fedeli, lui non era mai venuto meno alla sua lealtà. Lui sapeva, come molti esseri umani prima di lui, conciliare due fattori in conflitto.
Quasi persa nel bagliore del Sole Centrale c’era una pallida scintilla di luce, con attorno la debole luce di altri mondi più piccoli. Il loro lunghissimo viaggio stava per giungere alla fine. E fra non molto avrebbero saputo se era stato inutile.
20
Il pianeta al quale erano diretti distava solo pochi milioni di chilometri, una bellissima sfera di luci multicolori. Non poteva esserci oscurità in nessun punto della superficie, perché ruotando attorno al Sole Centrale riceveva la luce delle altre stelle sparse in cerchio nel cielo. In quel momento Alvin comprese le parole che il Maestro aveva pronunciato in punto di morte. «È bello guardare le ombre colorate dei pianeti di luce eterna.»
Ben presto poterono distinguerne i continenti e gli oceani. C’era qualcosa di strano, però. Le linee di demarcazione tra la terra e le acque erano troppo regolari. I continenti del pianeta non sembravano avere una disposizione data dalla Natura… ma disporre i continenti doveva essere stato un compito facilissimo per chi aveva costruito quei soli.
«Ma quelli non sono oceani!» esclamò a un tratto Hilvar. «Guarda! Non vedi delle linee?»
Quando furono più vicini al pianeta, Alvin capì che l’amico aveva ragione. C’erano infatti delle linee anche nelle zone che gli erano sembrate occupate dall’acqua. Gli venne un dubbio improvviso, perché conosceva il significato di quelle screpolature. Le aveva già viste nel deserto oltre Diaspar. Il lungo viaggio, dunque, era stato inutile.
«Questo pianeta è arido come la Terra» disse in tono cupo. «Quelle linee sono letti di sale, dove l’acqua dei mari è evaporata.»
«Non avrebbero dovuto permettere che succedesse» disse Hilvar. «Temo che siamo arrivati troppo tardi.»
La delusione di Hilvar era così amara che Alvin non osò aggiungere altro, ma rimase in silenzio a fissare lo schermo. Con impressionante lentezza la superficie del pianeta pareva venir loro incontro. Ora si vedevano degli edifici, piccole incrostazioni bianche sparse dovunque, tranne che nei letti degli oceani.
Una volta quel mondo era stato il centro dell’Universo. Adesso era morto, l’aria era deserta, e sulla sua superficie non si vedevano quelle macchie in movimento che parlano di vita. Tuttavia lo scafo continuava a scivolare deciso sopra il mare di pietra… un mare che qua e là formava grandi onde che sfidavano il cielo.
Tutt’a un tratto la nave si arrestò, come se il robot avesse raggiunto il punto di origine dei suoi ricordi. Sotto di loro una colonna di pietra bianchissima si ergeva nel mezzo di un immenso anfiteatro di marmo. Alvin aspettò un poco, poi, visto che l’astronave non accennava a muoversi, ordinò di atterrare ai piedi della colonna.
Fino a quel momento, nonostante tutto, aveva sperato di trovare la vita sul pianeta. La speranza svanì non appena ebbe aperto il compartimento stagno. Mai, nemmeno a Shalmirane, si era trovato immerso in un silenzio così impressionante. Sulla Terra c’era sempre un suono di voci, il movimento delle creature, o il mormorio del vento. Lì, tutto questo mancava, e non ci sarebbe mai più stato niente di vivo.