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«Perché ci hai portati qui?» domandò Alvin. Non gli importava molto la risposta, ma lo spirito della ricerca continuava a spronarlo, anche se aveva perso le speranze.

«Il Maestro è partito da qui» disse il robot.

«Immaginavo che ci avrebbe dato questa risposta» disse Hilvar. «Hai osservato l’ironia? Il Maestro è stato scacciato da questo mondo… e guarda il monumento che gli hanno costruito!»

La grande colonna di pietra era alta almeno quanto cento uomini, e poggiava su un cerchio di metallo che sporgeva leggermente dal livello della pianura. Non c’erano decorazioni, né iscrizioni. Per quante migliaia o milioni di anni, si domandò Alvin, i discepoli del Maestro si erano raccolti in quel luogo a rendergli onore? E avevano mai saputo che era morto in esilio sulla Terra lontana?

Comunque, ora non aveva più importanza. Maestro e discepoli erano tutti sepolti nell’oblio.

«Usciamo all’aperto» propose Hilvar, cercando di scuotere Alvin dalla depressione in cui era caduto. «Abbiamo attraversato mezzo universo per vedere questo posto. Puoi fare anche lo sforzo di muovere due passi.»

Alvin riuscì a sorridere e seguì Hilvar. Fuori, si rianimò un poco. Anche se quel mondo era morto, poteva contenere qualche traccia interessante che lo aiutasse a risolvere il mistero del passato.

L’aria era stagnante, ma respirabile. Nonostante tutti i soli su nel cielo la temperatura era bassa. Solo il disco bianco del Sole Centrale emanava un certo calore; gli altri mandavano soltanto luce.

Impiegarono pochi minuti per accertarsi che l’obelisco non poteva dare loro nessuna indicazione. Il materiale con cui era costruito mostrava i segni del tempo, e il metallo su cui poggiava era stato consumato dai passi di generazioni di discepoli e pellegrini. Era strano pensare che dopo chissà quanti miliardi di esseri umani, loro potevano essere gli ultimi due visitatori del luogo. Hilvar stava per proporre di tornare alla nave e volare fino all’agglomerato di edifici più vicini, quando Alvin notò una crepa stretta e lunga nel pavimento di marmo dell’anfiteatro. La seguirono per un bel tratto; la spaccatura si faceva sempre più larga, finché li condusse a un enorme avvallamento del terreno lungo un paio di chilometri. Non occorreva molta intelligenza o fantasia per capire da cosa era stato provocato. In epoche remote, certo molto prima che la vita sul pianeta si esaurisse, un’immensa forma cilindrica si era fermata in quel punto per poi librarsi di nuovo nello spazio.

Chi erano? E da dove erano venuti? Alvin non avrebbe mai saputo se avevano mancato quei precedenti visitatori per un migliaio o un milione di anni.

Ritornarono verso la loro nave (sarebbe sembrato un giocattolo, vicino al mostro che una volta era atterrate sul pianeta) e sorvolarono l’arena fino al più imponente degli edifici che la circondavano. Mentre atterravano davanti all’ingresso, Hilvar indicò qualcosa che Alvin aveva notato contemporaneamente.

«Queste costruzioni hanno l’aria pericolante: è un miracolo se si reggono ancora. Guarda quanti massi caduti! Se sul pianeta ci fossero state delle tempeste, queste case sarebbero a terra da chissà quanto. Mi sembra imprudente entrare.»

«Bene, manderemo il robot. È più rapido di noi e non provocherà spostamenti d’aria che possano far crollare il tetto.»

Hilvar approvò la precauzione, ma ne fece presente un’altra che Alvin non aveva tenuta in considerazione e che accettò subito. Prima di mandare il robot in ispezione, Alvin fece dare una serie di istruzioni al cervello dell’astronave. In questo modo, qualsiasi cosa fosse accaduta al loro pilota, avrebbero potuto tornare in salvo sulla Terra.

Ci volle poco per convincerli che quel pianeta non aveva niente da offrire. Per mezzo del robot, i due esploratori visitarono un’infinità di corridoi e di stanze vuote. Tutti gli edifici costruiti da esseri intelligenti, di qualsiasi forma sia il loro corpo, devono ottemperare a certe leggi base, e dopo qualche istante anche le più stravaganti forme di architetture o di disegno smettono di sorprendere. La mente dei visitatori rimase quasi ipnotizzata dalla continua ripetizione, sino a diventare incapace di assorbire qualsiasi altra impressione. Quegli edifici, così pareva, dovevano essere palazzi residenziali, e gli individui che li avevano abitati dovevano aver avuto all’incirca la statura dell’uomo. Potevano anche essere stati uomini. Vero che un sorprendente numero di stanze e vani potevano essere raggiunti soltanto da creature volanti, ma questo non significava che i costruttori della città avessero avuto le ali. Forse si erano serviti di apparecchi antigravità personali, del tipo che era stato in uso anche sulla Terra, ma che poi era completamente scomparso.

«Alvin» disse infine Hilvar «possiamo continuare così per l’eternità. Gli abitanti non hanno abbandonato le case, le hanno vuotate con cura di tutti i beni che possedevano. Stiamo sprecando il nostro tempo.»

«Che si fa, allora?»

«Diamo un’occhiata a qualche altra zona del pianeta, tanto per vedere se è così dappertutto, poi dovremmo fare una rapida esplorazione anche degli altri pianeti, e atterrare solo se ne vale la pena, o se appaiono totalmente diversi. È l’unica cosa da fare, a meno che tu non voglia restar qui per tutta la vita.»

Hilvar aveva ragione: erano venuti per mettersi in contatto con altre intelligenze, non per fare ricerche archeologiche. Il loro compito si sarebbe potuto svolgere in pochi giorni, se lì fosse esistita ancora un’intelligenza.

Per le ricerche sarebbero occorsi secoli di lavoro di uomini e di robot. Lasciarono il pianeta due ore dopo, ben contenti di andarsene. Quel mondo di edifici cadenti doveva essere stato piuttosto deprimente anche ai tempi in cui era abitato. Non esisteva traccia di parchi, di luoghi aperti dove potesse essere cresciuto un po’ di verde, qualche pianta. Quel mondo era stato spaventosamente sterile, ed era difficile immaginare la psicologia di coloro che l’avevano abitato. «Se il prossimo pianeta è identico a questo», pensò Alvin, «probabilmente abbandonerò le ricerche.»

Tutt’altro, invece: anzi, sarebbe stato impossibile immaginare un contrasto più forte.

Quest’altro pianeta era più vicino al sole, e perfino osservandolo dallo spazio si capiva che era caldissimo. Era parzialmente nascosto da nuvole, che denunciavano molta abbondanza di acqua, ma non si vedeva traccia di oceani. Né si notava alcun segno di intelligenza; fecero due volte il giro del pianeta senza vedere una sola costruzione. L’intero globo, dai poli all’equatore, era ricoperto da una coltre di un verde violento.

«Dobbiamo usare prudenza qui» osservò Hilvar. «Questo mondo è vivo, e non mi piace il colore di quella vegetazione. Sarà meglio restare sulla nave e non aprire il compartimento stagno.»

«Nemmeno per far uscire il robot?»

«Nemmeno. Voi avete dimenticato cosa siano le malattie. La mia gente sa come curarle, ma siamo molto lontani da casa, e qui possono esserci pericoli sconosciuti. Secondo me, questo mondo è degenerato. Ammetto che quand’era abitato potesse essere un immenso parco, ma poi la Natura deve aver preso il sopravvento. Di certo le cose non potevano stare così quando il pianeta era abitato.»

Alvin non dubitava che Hilvar avesse ragione. C’era qualcosa di malvagio, qualcosa di ostile all’ordine e alla regolarità su cui erano basate sia Lys che Diaspar, nell’anarchia biologica sotto di loro. Lì, per un miliardo d’anni, era stata combattuta un’incessante battaglia; nutrire la massima diffidenza per i superstiti era un’ottima misura precauzionale.

Si abbassarono cautamente su una grande pianura levigata e uniforme in modo anormale. Il piano era circondato da un sopralzo di terreno, tutto coperto da alberi di altezza smisurata che crescevano fittissimi e i cui tronchi erano letteralmente sepolti dal sottobosco. Esseri alati volavano tra i rami più alti, ma si muovevano così rapidi che era assolutamente impossibile dire se si trattava di uccelli, di insetti o di animali sconosciuti.